Professor Marturano, qual è la differenza tra “faccia” e “volto”, soventemente adoperati come sinonimi?
Faccia e volto sono certamente, nel linguaggio comune, termini usati in modo sinonimico. In realtà, essi si sovrappongono solo parzialmente. La faccia denota la parte visibile e materiale del viso, mentre il volto denota, sovrapponendosi con faccia, la stessa parte materiale (spesso in modo metaforico come in “il volto delle cose”, che in genere indica un rapporto con una “verità”), ma altresì denota la parte più legata all’interiorità come “il volto sofferente del Cristo”. Volto rimanda alla sfera simbolica che esso porta con se come “in un nuovo volto della televisione” dove non ci si riferisce alla mera faccia dell’attore, ma anche alle sue possibilità di recitare delle parti, e quindi di “prestare” la propria nuda faccia a volti di personaggi immaginari e non: il volto di Jack Sparrow, il protagonista della saga I pirati dei Caraibi, ha la faccia di Johnny Depp.
Selfie. E’ necessaria la mediazione esterna, è indispensabile un pubblico, per rassicurarsi in merito alla propria identità?
Il modo con cui ogni essere umano è identificato, riconosciuto da chi incontra durante la sua vita è attraverso la propria nuda faccia. In questi anni di pandemia, in cui abbiamo indossato le mascherine, sovente avevamo difficoltà a riconoscere persone che, magari, ci erano più o meno familiari. Il riconoscimento della faccia ha come presupposto il riconoscimento, nel bene e nel male, di sé da parte di altre persone. Il selfie altro non è che una aggiunta tecnologica a questo meccanismo tipicamente umano; l’essere umano non vive in solitudine, vive perché da sempre attraversato da reti più o meno forti di relazioni sociali: la famiglia, la scuola, il posto di lavoro, la tribù, il quartiere, la città. A questi classici esempi di relazioni sociali si aggiunge ora il Web; in questo momento storico in cui l’immagine fotografica ha preso il sopravvento sulla parola scritta o parlata, perché più ricca di significati immediati e sensibili, il selfie o la propria immagine proiettata nel Web ha acquistato più importanza che nel passato? Probabilmente no, basti pensare ai ritratti che da sempre gli aristocratici hanno nel passato richiesto ai più grandi pittori del loro tempo. La differenza fondamentale tra i selfie e quei ritratti è forse nella durata: i ritratti erano proiettati al futuro, i selfie sono immagini istantanee, oserei dire usa e getta, volti ad un audience contemporanea inseriti nel contesto di un consumismo digitale nel quale anche la propria immagine e la propria identità deve essere, in un certo senso, consumata.
La macchina cenestesica s’indebolisce e, simultaneamente, la macchina ottica del sé si rafforza. In che misura il selfie può essere ascritto nella cornice d’una mutazione antropologica?
Non parlerei di dicotomia tra macchine cinestetiche versus macchine ottiche, che, a mio avviso, riprendono una concezione del rapporto tra la macchina uomo e la macchina digitale legata a paradigmi passivi di fruizione, che non sono del tutto cogenti al rapporto che intercorre tra cinesteticità umana e computer specialmente tra i più giovani che giocano in modo fisicamente attivo i videogame (la mia generazione era molto meno attiva da un punto di vista fisico perchè si limitava- come già negli anni ’30 Bertrand Russell in L’elogio dell’ozio – a fruire passivamente di spettacoli costruiti da altri) o preparano prodotti come tik tok instagram mettendo in mostra spesso narcisisticamente il proprio sé. Ora che questa esposizione del sé in ambito digitale sia una mutazione antropologica è difficile dirlo: se prendiamo a raffronto l’epoca della TV o delle Radio possiamo forse dire che si, il digitale preme per una nuova immagine del sé. Ma se mettiamo questo fenomeno a confronto con le epoche precedenti, quella della fotografia tra ‘800 e ‘900 possiamo notare come già vi era una esposizione del sé senza precedenti, che, però, in confronto alla moderna esposizione era pensata per durare nel tempo. L’esposizione del sè contemporanea, specialmente quella che gira sulle piattaforme come Instagram e Tik Tok, invece pretendono che l’immagine dell’individuo sia consumata in breve tempo e che il sé, attraverso una dinamica di selezione/evoluzione sociale, divenga il più possibile fluido per essere proposto in modo sempre più innovativo di volta in volta. Se potessimo dare un motto a questo fenomeno, potremmo riparafrasare il motto darwiniano “the survival of the fittest” in “the survival of the fluidest” (Fluidest è tra l’altro uno dei personaggi del famoso videogioco World of Warcraft, che rimanda quindi ad una lotta ed una lotta di hobbesiana memoria). Insomma, più che ad una mutazione antropologica stiamo assistendo alla esacerbazione di dinamiche sociali che hanno radici nell’800 e che il capitalismo selvaggio sta mettendo in atto in tutti i settori della società bruciando risorse ed individui in tutto il mondo, che potrebbero invece seguire una vita più orientata ad una pluralità di esperienze di vita. O forse la stiamo mettendo in maniera troppo drammatica se pensiamo che questa è un’epoca di passaggio e nulla vieta che dopo questa ubriacatura tecnologica si ritorni ad una vita che sia maggiormente in sintonia con l’ambiente naturale e che nella maturazione delle giovani generazioni si ritorni alla carne, al sudore, alla vita consociativa una volta fatta esperienza della futilità delle esperienze commerciali mediate dalle macchine.
Dagli antichi Greci all’Elephant Man, dai gueules cassées, i soldati sfregiati della Prima Guerra, a Guy de Gourmont, amico di Apollinaire.
La deformità facciale è ancora elemento di esclusione sociale?
Certamente, soprattutto in un’epoca ossessionata dalla futile bellezza “commerciale” fatta specialmente di stereotipi e di cliché. Ricordo benissimo come varie volte quando ero stato chiamato a fare colloqui di lavoro ad alto livello, il modo in cui mi presentavo, soprattutto in Italia, in ambienti dove forte era la spinta al business, provocava una certa perplessità da parte di coloro i quali avrebbero dovuto assumere e per i quali un certo aspetto fisico “standard” prevaleva sulle competenze o sul merito. Oppure quando, specialmente sugli autobus, le persone mi guardavano con insistente fissità cercando di carpire i motivi per i quali apparivo morfologicamente diverso.
Lei ha dichiarato di essere portatore della Sindrome di Treacher Collins Franceschetti.
E’ la sua faccia portatrice della sua identità?
Nella canzone “La facciata”, Renato Zero canta “Ma non sai, Le coordinate della vita mia, Per ogni storia andata in gloria e via, Perché ogni ruga, Ha un nome, Ch’io soltanto so. E a stento nascondo…”. La sindrome di Treacher Collins non può che essere parte della mia identità, la parte più profonda che a stento nascondo, che in qualche maniera mi ha spinto ad essere quello che sono, nel bene e nel male. Come anche ogni ruga, spesso determinata da interventi chirurgici, portano appresso un significato, una valenza, che, come dice Zero nella sua canzone, hanno “un nome che io soltanto so” e che non sono un segno di ipocrisia e neppure di autocensura, perché quelle rughe, quei segni sulla faccia, quelle deformità prolificano il proprio significato per colui che li possiede; talmente profondo è questo significato che è difficile financo esprimerlo: insomma, per dirla con l’aforisma 7 del Tractatus di Ludwig Wittgenstein, “di ciò di cui non si può parlare si deve tacere”.
ANTONIO MARTURANO è docente a contratto di Antropologia Filosofica all’Università di Roma Tor Vergata e professore di ruolo in Filosofia e Storia al Liceo Classico e Linguistico Aristofane. Laureato in Filosofia a La Sapienza Università di Roma e dottore di ricerca alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Milano, ha insegnato e svolto ricerca (con una borsa Marie Curie) all’Università di Lancaster ed Exeter (UK) e all’Università di Richmond (USA). Ha insegnato in diverse università italiane ed è stato membro del comitato di etica di Difesan (la Direzione Generale della Sanità Militare) e dell’Università di Exeter. Ha pubblicato oltre cento saggi su riviste internazionali (tradotti anche in spagnolo e parsi) e diversi libri in inglese e italiano. Il suo Leadership: the Key Themes, curato con J. Gosling e pubblicato con Routledge, è tradotto in cinese.
