“Ci sono alcune persone che quando parlano mi sfamano. Non è una metafora, non è retorica: davvero a me passa la fame…”
La lingua possiede una sua dimensione affettiva? Può tangere il luogo più recondito della nostra anima e colloquiare con il nostro inconscio?
Nel caso di Paolo certamente la lingua ha una dimensione affettiva, il binomio sporco/pulito su cui si basa la sua ossessione linguistica è di fatto emotivo. Ciò che lo fa sentire accettato e che percepisce come onesto e sincero è pulito, ciò che invece è ipocrita e violento è sporco. Nell’ultima parte del romanzo Paolo perde il controllo sulla lingua – e sulle lingue – ed è così in stretto contatto con la sua parte inconscia.
Anche per me la lingua è legata all’affetto, l’italiano è la lingua in cui mi sento a casa, è quella radiofonica delle voci romane che mi ricordano quella di mia nonna, è quella filosofica di mia madre, quella letteraria con cui sono cresciuta. Il tedesco invece è la lingua dell’età adulta, e dell’amore. Ma non sono divise, per nulla, si mescolano. È quando mi cade qualcosa o in momenti particolarmente emotivi che la voce mi esce italiana e non tedesca e nelle prime stesure il colloquio con l’inconscio è qualcosa che sento molto vicino al sogno.
“A Bolzano tutto ha due nomi, a volte anche tre: uno in tedesco, uno in italiano e a volte, quando si deve, se proprio si deve, anche in ladino. Questo è un problema perché le parole hanno un potere metamorfico sulle cose”
Cosa non basta alla lingua per esprimere se stessi ed il proprio immaginario, anche facendo riferimento al suo luogo natio?
Per il protagonista ciò che manca è una sicurezza linguistica e identitaria, ma anche affettiva. Non sentendosi a casa, in un luogo che percepisce come nemico e giudicante, storicamente complesso e violento, linguisticamente e culturalmente diviso, non riesce a essere sé stesso. È solo la distanza dalla città natale e la leggerezza berlinese che gli permettono di esprimersi così com’è.
Paolo e Mira di Pienaglossa con la sua lingua monda ed immacolata.
Quanto la parola ha un potere balsamico e curativo?
La parola di Mira, nella prospettiva di Paolo, riesce a curare perché è sincera e pulita. In realtà, cambiando prospettiva, si tratta di un’ossessione capovolta, dal negativo al positivo, in cui la ragazza di cui è innamorato viene idealizzata a tal punto da affidarle un lavoro che solo e unicamente Paolo può essere in grado di svolgere. La parola – e tutto ciò che sta dietro alla parola – è in grado di ammalare e curare perché il protagonista le conferisce il potere di farlo.
“Lingua madre”: ci spiega il titolo del libro, che chiaramente richiama il termine “madrelingua”?
Per me era importante che ci fossero sia la lingua che la madre, perché sono i due nodi centrali della narrazione. Con la madre si apre e si chiude il romanzo, mentre la lingua è la grande ossessione del protagonista. Volevo che la lingua fosse anche madre, per Paolo, che nella madre vera ci vede solo l’anagramma merda.

Maddalena Fingerle è nata a Bolzano, di cognome tedesco ma di lingua madre italiana, ha compiuto gli studi universitari (dapprima di Germanistica per poi specializzarsi e addottorarsi in Italianistica) a Monaco di Baviera. Suoi racconti sono apparsi su «Nazione Indiana», «Neutopia», «CrapulaClub». Con Lingua madre ha vinto la XXXIII edizione del Premio Calvino, il Premio Fondazione Megamark, il Premio Città di Girifalco, il Premio Comisso under 35 e il Premio Flaiano under 35.