Macchinazioni, intrighi, segreti, misteri, verità sapientemente celate, insabbiamenti, enigmi: sono ingredienti essenziali del giallo. La sua idea di romanzo “giallo” in che misura diverge dal genere codificato?
Mi identifico più nel noir, inteso come giallo d’atmosfera, ricco di sfumature, di personaggi non caricaturati, dove il “nero” avvolge la trama che, pur mantenendo una certa tensione e basandosi su un solido intreccio narrativo, fa spazio al contesto in cui è immessa, in primis la città o la società, e diventa quindi una testimonianza immaginifica del tempo reale, ma anche una riflessione, con chiaroscuri dove serpeggia una sorta di inquietudine latente.
I percorsi delle protagoniste si dipanano anche a ritroso nel tempo; si servono di ricordi ingialliti e via via emergenti. La sua personale indagine adopera flashback che compongono un puzzle di notevole suspense. Quale valore attribuisce all’elemento della “memoria” nella sua produzione?
Si possono davvero chiudere i conti con il passato?
Giorgia Cantini, l’investigatrice privata dei miei romanzi noir, indulge nella nostalgia ma sa che, in fondo, forse è solo il rimpianto di un’età più verde. Racconta il tempo della sua giovinezza e Bologna negli anni ’80 e ’90, con citazioni musicali, letterarie, cinematografiche. Sovrappone spesso due epoche diverse, quella passata e quella presente, e le mette a confronto. La memoria, con le sue bugie e le sue verità, è ciò che Giorgia si trascina dietro come una zavorra necessaria. Ne avverte il peso ma alle volte sa anche disfarsene per vivere il “qui e ora”.
La sua scrittura, scorrevole ed incisiva, diretta e frizzante, pare rinviare al linguaggio delle serie TV. Quanto risponde ad una sua precisa volontà la contaminazione dei linguaggi?
La serie “Quo vadis, baby?” prodotta da Sky nel 2008 è stata la prima, insieme a “Romanzo criminale” a dare il via a una vera e propria “moda” del seriale tv. Credo abbia anticipato i tempi, credo cioè che i tempi non fossero ancora maturi per un personaggio femminile così anticonvenzionale, politicamente scorretto, niente a che vedere con le dark lady o le poliziotte americane che fanno jogging sull’oceano e hanno sempre una pistola sguainata. Giorgia è una donna con le sue vulnerabilità, le sue falle, la sua bellezza irregolare. Il linguaggio è solo la mia voce, ed è quella che uso, che ho affinato con gli anni, anche nei romanzi non noir. Lo stile di un libro lo fa la personalità del suo autore, e cioè le sue esperienze, la sua sensibilità e soprattutto le sue letture.
La visione delle donne nell’immaginario letterario “giallo” è soventemente monodimensionale, sovente intrisa di cliché e venata di maschilismo. Le figure muliebri sono funzionali al percorso umano, emotivo, emozionale maschile.
Lei, invece, dà voce a chi ha fatto del delitto la sola via di fuga. Perché ha mutato la prospettiva circa il genere?
Nel mio racconto “Do ut des” dell’antologia “Le Invisibili” uscita ora per Rizzoli la mia protagonista è un’assassina, una donna obesa, vessata da una madre dispotica, una borderline in cerca di un riscatto da una vita povera in tutti i sensi e che non trova di meglio che immaginare un patto mortale con un’altra donna, anch’essa vittima. Nei romanzi con Giorgia invece la mia propensione è quella di raccontare personaggi (uomini e donne) che inciampano, che compiono errori, infrazioni, un’umanità dolente o estrema, dove anche qui c’è una forte sospensione del giudizio. In genere affronto un tema sociale, il femminicidio, l’omofobia, eccetera, e creo un teatro realistico, situazioni al limite, legate anche alla cronaca quotidiana.
“Le invisibili” sono assassine spinte da passioni incontrollabili, criminali per libera determinazione, donne comunemente reputate banali. Di certo, protagoniste d’indubitabile fascino. Pensa ad una trasposizione cinematografica o teatrale di quanto scritto in modo tanto accattivante?
“Do ut des” è un racconto molto scuro, per certi versi cattivo, lontano dalle logiche rassicuranti e consolatorie di tante serie tv italiane. Riesco a immaginarlo solo trasposto sullo schermo all’estero. Ma mai dire mai.
Grazia Verasani è scrittrice, drammaturga, musicista, ha pubblicato a oggi quattordici libri, tra cui Quo vadis baby? (2004), che nel 2005 è diventato un film di Gabriele Salvatores e in seguito una serie tv prodotta da Sky. La sua opera teatrale From Medea – Maternity Blues, rappresentata in Italia e all’estero, nel 2012 è diventata un film vincitore di due Globi d’oro. Il suo ultimo romanzo è Lettera a Dina (2016). Ha studiato pianoforte classico e collaborato con diversi artisti. Lavora anche come sceneggiatrice e ha scritto articoli per quotidiani e riviste. I suoi libri sono tradotti in vari paesi tra cui Francia, Germania, Portogallo, Stati Uniti, Russia. Il suo sito è http://www.graziaverasani.it
