La tradizione filosofica italiana

La filosofia italiana è viva e vegeta, eppure vige ancora quell’approccio “museale” volto solo a conservarne il glorioso passato. Quale prospettiva adottare per ripensarla, rivitalizzarla e renderla operativa nell’attualità?

Per evitare quell’approccio che, nel mio libro, ho definito “museale” – volto cioè a un recupero fine a se stesso del passato – è possibile assumere la prospettiva adottata dall’Italian Thought, un movimento filosofico, nato in Nord America, in seguito alla traduzione in inglese delle opere di autori italiani tuttora in attività. Il pensiero di filosofi come Roberto Esposito, Toni Negri, Giorgio Agamben, Gianni Vattimo e Adriana Cavarero – per citare soltanto i più noti – è oggi particolarmente studiato nei paesi anglosassoni. Ma non solo. Esso si è diffuso anche in Europa, America Latina e persino in Giappone. In breve, tale vettore speculativo – altrimenti noto col nome di Italian Theory – è una modalità teoretica di ripensare la nostra tradizione. In altre parole, esso risponde all’odierna necessità di far fronte ai cambiamenti e all’accresciuta complessità del mondo contemporaneo, elaborando nuove categorie all’altezza dei tempi, senza però rigettare il patrimonio filosofico che ci precede.

L’Italian Thought gode di successo internazionale. Cosa rende il pensiero italiano così apprezzato e studiato all’estero e quali sono le sue peculiarità?

Il successo del pensiero italiano è dovuto, io credo, a taluni suoi tratti distintivi che lo rendono particolarmente originale e attuale. Come ho detto, l’odierno Italian Thought risponde all’esigenza – sempre più sentita – di concretezza e di nuove categorie che siano in grado di leggere la complessa realtà di cui siamo abitatori, a distanza di sicurezza da certe filosofie senza alcuna connessione con il mondo della vita, della storia, della politica. Per dirla con le parole di Roberto Esposito, “la nostra non è stata né una filosofia della coscienza, come quella classica francese, né una elaborazione metafisica come la tedesca. Ma non è stata neanche una filosofia della logica e del linguaggio, come nei Paesi anglosassoni. Non è stata un’analitica dell’interiorità, della trascendenza, delle strutture logico-linguistiche, ma un sapere della vita, del corpo e del mondo”.

Da Dante a Vico, da Machiavelli a Gramsci: una tradizione nazionale unitaria, una traccia, un fil rouge pur nella loro differenza tematica?

Sì, vi è senz’altro una linea di continuità che attraversa il pensiero filosofico italiano da Dante a Gramsci fino all’odierno Italian Thought. Ma questo non significa, cela va sans dire, che la nostra tradizione possa essere ridotta a un’unica cifra peculiare. È vero che quella italiana è stata più una filosofia della “ragione impura”, attenta alla dimensione della concretezza storica e al mondo della vita, insomma a ciò che Machiavelli chiamerebbe “verità effettuale”, ma è altrettanto vero che gli autori, gli indirizzi, i centri di produzione culturale sono molteplici e rendono policromatica la storia del pensiero italiano. Non a caso, i quattro autori paradigmatici che ho preso in esame nel mio libro – Bertrando Spaventa, Giovanni Gentile, Eugenio Garin e Roberto Esposito –, pur condividendo l’esigenza di ripensare la nostra tradizione, ma lontani da un suo recupero meramente erudito e fine a se stesso, non valorizzano le stesse correnti filosofiche né, di conseguenza, sviluppano le medesime tematiche.

È praticabile una terza via alternativa sia al nazionalismo che al globalismo?

Non soltanto è praticale, ma è auspicabile. Come noto, uno degli esiti nefasti del globalismo è la riduzione delle molteplici culture a un’unica cultura mondiale. La soluzione a questa tendenza non può certo essere il nazionalismo, da respingere tanto quanto il paradigma “globalitario”, bensì una terza via che nel libro ho definito “internazionalista” e che si ispira al “cosmopolitismo di nazioni” di cui parla Mazzini. In tale paradigma, le peculiarità culturali – lungi dall’essere annullate – vengono conservate nelle relazioni armoniche inter nationes. D’altronde, come ha scritto giustamente lo stesso Gioberti, “né i partimenti nazionali offendono l’unione cosmopolitica, anzi ne fanno parte, perché l’universale non può stare senza il particolare e il conserto maggiore presuppone quelli di minor tenuta. Nei tempi antichi le nazionalità e le patrie erano contrarie alla cosmopolitia, perché la scarsa coltura fra loro le inimicava”.

Il filosofo può intendersi come paradigma dell’umanità?

Senz’altro può essere un modo di intenderlo, almeno stando alle celebri definizioni del filosofo come “funzionario dell’umanità” di Husserl e – prima ancora – dell’intellettuale come “maestro del genere umano” di Fichte. Fra l’altro, non mancano pensatori italiani che, già in epoca rinascimentale, concepivano la filosofia in questi termini. Si pensi a Tommaso Campanella, il quale scrisse significativamente: “Io nacqui a debellar tre mali estremi: tirannide, sofismi, ipocrisia”. E si adoperò attivamente in tal senso: scrisse la Città del Sole, un’utopia che cercò di realizzare concretamente, organizzando in Calabria – sua terra natìa – una rivolta che avrebbe dovuto sovvertire l’allora governo spagnolo e “offrire quasi un esempio preliminare della grande repubblica universale che si deve preparare”. Arrestato nel 1599, Campanella non riuscì a mettere in pratica questo suo ambizioso progetto politico-filosofico. Un destino analogo era già toccato all’altro grande pensatore italiano di quel periodo, Giordano Bruno, che – di lì a poco – sarebbe stato arso vivo in Campo de’ Fiori. I due grandi sconfitti del nostro Rinascimento sono ancora oggi modelli paradigmatici di vite autenticamente filosofiche. Persino, appunto, nella sconfitta, che Bruno, in uno dei passaggi più potenti e attuali della sua opera, ci insegna ad affrontare: “Ho combattuto, è già molto: ho creduto di poter vincere (ma alle membra venne negata la forza dell’animo) e la sorte e la natura hanno represso ogni velleità ed ogni sforzo. È già qualcosa l’essersi cimentati: la vittoria, mi sembra, è nelle mani del Fato; per quel che mi riguarda ho fatto il possibile e ciò che mi appartiene non lo potranno negare né i secoli futuri né ciò che appartiene al vincitore cioè il non aver temuto la morte ed il non aver consentito ad alcun mio simile di anteporre una morte gloriosa ad una vita imbelle” (De Monade).

Corrado Claverini è assegnista di ricerca in Filosofia presso l’Università del Salento. Ha conseguito il Dottorato in Filosofia presso l’Università S. Raffaele di Milano. Tra le sue pubblicazioni: La tradizione filosofica italiana. Quattro paradigmi interpretativi (Quodlibet, 2021); Utopia concreta. Pensiero utopico e ideologia in Niccolò Machiavelli e Tommaso Campanella (Il Prato, 2015); Spaventa, Gentile e la tradizione italiana, «Il Pensiero», 57/2, 2018; Dove va la filosofia italiana? Riflessioni sull’Italian Thought, «Phenomenology and Mind», 15, 2018. Sua la curatela del fascicolo L’Italian Thought fra globalizzazione e tradizione, «Giornale Critico di Storia delle Idee», 1, 2019.

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