Dalle montaniste a Margherita Porete, da Giovanna d’Arco a Marta Fiascaris fino alle donne dell’Anticoncilio del 1869 ed alle moderniste. Ritratti di donne, un caleidoscopio di universi femminili, dissimili quanto ad età, condizione, ruolo sociale, esperienza esistenziale. Qual tratto le accomuna? Pur nei differenziati contesti culturali e storici, queste donne esprimono il disagio di non sentirsi riconosciute nei propri ruoli all’interno di una comunità gerarchica, clericale e maschile e, allo stesso tempo, l’esigenza di proporsi come portatrici di un messaggio liberante e alternativo in linea con l’annuncio evangelico
I suoi ritratti muliebri navigano nel tempo. Quale criterio di scelta ha adottato per navigare attraverso i secoli? La scelta è stata condizionata dalle fonti che sono a disposizione e che rimandano perlopiù a processi e a documentazione che proviene da coloro che hanno condannato. Ho preso i casi di cui abbiamo testimonianza, i più conosciuti ed eclatanti, attingendo al materiale raccolto nei tanti anni di studio. Mi interesso da più di 40 anni di donne nella storia del cristianesimo e di dare loro visibilità. Per tanto tempo mi sono interessata di sante, venerabili, mistiche, fondatrici ecc. Alla fine della mia carriera, mi sembrava dare spazio a quelle donne, meno fortunate, che sono state ancora di più emarginate perché ritenute eretiche, cioè fuori della comunità ecclesiale.
Quelle descritte sono di certo donne emblematiche: le loro passioni ardimentose, le scelte intrepide, la debolezza e l’impeto del loro essere, ma anche l’inarrendevolezza, il genio e la forza di volontà che le hanno connotate. Quale messaggio ci offrono? Ci fanno capire che il concetto di eresia è ideologico e non storico. Queste donne non si ritengono “nemiche di Dio o della Chiesa”, ma credono di seguire un’indicazione di Gesù a cui fanno costante riferimento e in nome di questa fedeltà, sono pronte anche a morire.
L’eresia è stata studiata attraverso i protagonisti maschili, mentre poca attenzione è stata riservata alle provocatorie e alternative esperienze femminili. Quali sono, a suo avviso, le ragioni per le quali è stato così arduo sottrarsi all’invisibilità? Esiste una cultura atavica che considera il femminile insignificante e non meritevole di attenzione. Anche i libri utilizzati nelle scuole laiche non parlano di donne. Se tuttavia, risultano particolarmente pericolose per il sistema, si preferisce non parlarne per non divulgare la notizia sperando che l’esperienza provocatoria muoia con la protagonista. È quello che si faceva quando nel passato si bruciavano gli scritti delle donne affinché non se ne conoscesse i pensiero o quando oggi non si parla di quelle che, ordinate da vescovi compiacenti, celebrano i sacramenti ritenendo di poter far parte del cosiddetto ordine sacro.
Le sue pagine quanto si distaccano dal femminismo nelle sue plurime e molteplici flessioni? Non penso se ne distaccano, perché sono pienamente inserite all’interno della teologia femminista, di cui credo di essere un’esponente. Esiste un femminismo cattolico che vuole restituire dignità e consapevolezza all’universo femminile attraverso una rilettura critica dei testi sacri, della tradizione e dell’impianto antropologico e teologico che hanno nei secoli penalizzato le donne. Anche io, come le mie colleghe teologhe, spero con i miei studi di aver dato un contributo in tal senso
Laureata in Filosofia e in Teologia, Adriana Valerio ha insegnato Storia del Cristianesimo e delle Chiese presso l’Università Federico II di Napoli. Ha fondato ed è stata presidente dell’«Associazione Femminile Europea per la Ricerca Teologica» (2003-2007) e attualmente dirige il progetto internazionale La Bibbia e le Donne.Tra le più recenti pubblicazioni: Donne e Chiesa. Una storia di genere (Carocci 2016); Il potere delle donne nella Chiesa (Laterza 2016); Maria Maddalena (Il Mulino 2020); Eretiche (Il Mulino 2022).
Lei è reputato a ragion veduta uno degli autori più acuti del fenomeno mafioso. Come si evoluta la mafia negli ultimi decenni?
La mafia, Cosa Nostra in questo caso, ha vissuto più di un decennio, tra gli anni 80 e gli anni 90, di guerre e di faide tra i corleonesi di Riina e di Provenzano – la cosiddetta mafia stragista-, e la vecchia mafia, quella che non era d’accordo con la nuova linea di Riina che voleva prendersi tutta la Sicilia e sferrare un duro attacco allo Stato. I corleonesi uccisero molti boss della vecchia mafia e nel 1992, con la Cassazione che convalida le dure condanne del maxiprocesso di Palermo, comincia con gli omicidi : prima uccidono l’europarlamentare Salvo Lima, poi la strage di Capaci, quindi la strage di via D’Amelio per farla pagare ai giudici Falcone e Borsellino. Poi nel 1993 viene catturato Riina, Cosa Nostra da’ l’ultimo colpo di coda con le bombe di Roma, Firenze e Milano e da quel momento non spara e non ammazza più. Nel 2006 viene catturato Provenzano e resta libero solo quel Messina Denaro, catturato dopo 30 anni solo lo scorso 16 gennaio. Con il suo arresto si può dire chiusa la lunga parentesi della mafia stragista. Oggi la mafia fa affari ad alto livello, in doppio petto, e se non spara più è perché ha raggiunto i giusti equilibri.
I personaggi che tessono la trama del suo romanzo, puntualmente, consegnano al lettore l’”oggi” con le implicazioni nel tessuto sociale esercitate dalla mafia. I nostri tempi possono ospitare, a suo avviso, propositi di cambiamento sociale?
Le stragi degli anni 90 hanno rappresentato l’inizio della fine di quella mafia che piazzava bombe e uccideva senza pietà. Perché l’opinione pubblica reagì con un grande moto di indignazione. La gente comune, quella che credeva che le cose di mafia fossero affari di altri, capì che tutti eravamo a rischio. E da quel giorno si è diffusa una cultura antimafiosa con un fermento culturale importante nelle scuole. Io stesso quando vado nelle scuole a parlare dei miei libri, mi confronto con studenti che hanno basi solide di coscienza civica e sono molto preparati sul tema del riscatto sociale attraverso la cultura, l’unica che può formare il senso del dovere. Purtroppo, c’è ancora molto da fare, soprattutto in quelle fasce del paese dove manca appunto la diffusione della cultura. Un giorno un ex killer di mafia in carcere da 30 anni mi ha detto .
Il suo impegno sociale, profuso nella scrittura, ha trovato alleati nelle Istituzioni o si è scontrato con l’inadeguatezza degli strumenti legislativi ed istituzionali?
E’ una domanda che implica un ragionamento molto vasto. Provo a sintetizzare. Nei miei romanzi ho avvertito il bisogno di “denunciare” le incongruenze della nostra giustizia, i limiti dell’applicazione delle regole, il rispetto della Costituzione. Nelle mie storie, quasi tutte realmente accadute, succedono cose che vanno a sbattere contro un certo giustizialismo all’italiana che ragiona di pancia e pur di prendere consensi in certe fasce di popolazione, tradisce l’elementare principio sancito dalla nostra Costituzione secondo cui chiunque sbagli, chiunque si macchi del peggior reato, ha il diritto di cambiare, di essere recuperato. In Italia questo non succede fino in fondo, complici appunto le Istituzioni che disattendono le basi della democrazia di uno stato di Diritto.
Sullo sfondo della sua narrazione c’è la vita in carcere e la certezza di non uscire più: fine pena mai. In giorni tempestosi in cui si discute di ergastolo ostativo e di 41bis, qual è la sua posizione in merito?
La mia posizione su questa delicata materia è chiara e può perfino apparire banale: io sono e sarò sempre per il rispetto della legge: e la legge dice che l’ergastolo ostativo è incostituzionale nella parte in cui obbliga il condannato a collaborare con la giustizia per poter usufruire dei benefici di legge che altri ergastolani, non ostativi, ottengono molo più facilmente. Il governo ha dovuto adeguarsi alla sentenza della Consulta e ha eliminato questo obbligo, ma inasprito le prerogative per poter accedere ai permessi, alla semilibertà, alla libertà condizionale. Per esempio, se prima occorreva aver scontato 26 anni di carcere per chiedere i permessi, ora ne servono trenta. Io mi chiedo, se l’art.27 della Costituzione stabilisce che il carcere deve tendere al recupero del condannato, come è possibile che esista una pena che finirà solo con la morte del reo? Sul 41bis invece, il cosiddetto carcere duro, si può essere d’accordo, ma bisogna valutare caso per caso: oggi viene applicato con troppa facilità, anche a chi, per esempio, non si sia macchiato di omicidi.
Lei è altresì un giornalista: reputa che il bisogno di verità possa sempre costituire un motore potente che spinge all’azione?
Vengo da un’epoca in cui il giornalista andava sul campo. Non c’era Internet, non c’era questa bolgia di informazioni a cui chiunque oggi può accedere. Il bisogno di capire, di scoprire, di verità appunto era una responsabilità, prima ancora che un dovere. Perché sapevi che dal tuo lavoro dipendevano molte cose. Io mi sono occupato nella mia carriera di grandi inchieste giudiziarie, di mafia. Ho seguito fin dal giorno del suo omicidio, l’inchiesta sull’agguato al giudice Rosario Livatino. Sono stato perfino indagato dalla procura di Caltanissetta insieme ad altri tre colleghi, per aver scritto un servizio sul quotidiano “L’Ora” a cui collaboravo, nel quale ragionavo sugli scenari che si profilavano e sui possibili killer del giudice. Avevamo “visto” bene e siamo stati indagati, e ovviamente prosciolti. Oggi il giornalismo si è un po’ adagiato. Sono sempre meno coloro che inseguono la notizia, e molti di più quelli che si fanno raggiungere dalla notizia comodamente seduti davanti al pc, bersagliati da mille e mille siti, tutti, chi più chi meno, in diritto di dire la propria su qualunque argomento. Questo a danno della verità perché paradossalmente, oggi scrivono tutti e ai tempi dei social, perfino il fruttivendolo ambulante (con tutto il rispetto per i fruttivendoli) si sente autorizzato a dire la sua su qualsiasi argomento d’attualità. Non voglio apparire saccente, ma ecco, venire da quel tempo mi aiuta a fare questo lavoro all’antica. Indagare, capire, ragionare. Nell’interesse supremo della verità.
Carmelo Sardo, giornalista, siciliano di Agrigento, vive e lavora a Roma. Ha esordito nella narrativa con Vento di tramontana (Mondadori, 2010). Malerba (Mondadori, 2014), scritto insieme al detenuto ergastolano Giuseppe Grassonelli, ha vinto il prestigioso premio Leonardo Sciascia ed è stato pubblicato in Francia, Germania, Spagna e Giappone. Dal libro è stato tratto il docufilm Ero Malerba, con la regia di Toni Trupia, ed è stato avviato il progetto per la trasposizione cinematografica. Nel 2016 esce con Mondadori, Per una madre.
Professore, lei scrive: ”Dopo il disastro del 6 gennaio, l’immagine dell’azienda viene rilanciata usando il “verbo” con cui il giovane Zuckerberg aveva definito la “missione” di Facebook: la creazione di un’infrastruttura sociale per dare alle persone il potere di costruire una comunità globale che funzioni per tutti noi” Ebbene, dopo aver millantanto con Facebook il ritrovamento della comunità perduta, qual è oggi la missione del Metaverso?
La missione affidata a Metaverso vorrebbe essere quella di espandere nella realtà virtuale, che può proporci la tecnologia digitale, la “comunità globale” già largamente fittizia dei social. Realizzare come fenomeno sociale di massa il trascendere oggi a disposizione, grazie al digitale e all’intelligenza artificiale, del mondo reale nel mondo virtuale per il tramite della transitività tra i due mondi. Ratificare socialmente in modo sempre più pervasivo il nostro essere entrati nell’epoca dell’onlife3, dove la dimensione vitale, relazionale, sociale e comunicativa, lavorativa ed economica, è vista, agita e proposta come frutto di una continua interazione tra la realtà materiale e analogica e la realtà virtuale e interattiva.
Ottenuta la piena transitività, grazie al digitale ed all’Intelligenza Artificiale, del mondo reale nel mondo virtuale, quali effettivi rischi corre l’umano?
L’umano corre il rischio di subire come fenomeno di sociale di massa un’immersività sempre più radicale e radicata dell’esperienza reale, della vita di presenza, nella realtà virtuale. Il cui disagio è già socialmente evidente in tanti ambiti dell’esperienza quotidiana. La vita di “presenza”, la stessa quotidianiatà della relazione umana rischia l’effetto gorgo del reale nel virtuale, che il buco nero dell’online fagociti sempre più la realtà offline, la vita come tale. La vita, anche quotidiana, che fin qui abbiamo conosciuto e “abitato” in presenza. Non solo: un altro rischio evidente, che è largamente già realtà, si pensi alle polemiche sul controllo dei Big Data e alle battaglie per difendere la privacy, è che ci siamo messi sulla strada di un controllo autoritario della società e di tutti gli ambiti della vita individuale sempre più “totalitario”, in mano a poche mani, per altro neanche politicamente trasparenti.
“Immersi come siamo in questa distopia, l’unica via di uscita possibile è “salvare la presenza”. Come si scappa dal buco nero dell’online che fagocita la realtà offline; come si salva la vita come tale?
La prima risposta è una presa d’atto dei rischi della società dell’infosfera, della pervasività del digitale e degli algoritmi dell’intelligenza artificiale nella nostra vita. Le tecnologie digitali e la potenza di calcolo dell’IA, che certamente recano grandi benefici e nuove possibilità operative in tutti gli ambiti tecnici e scientifici, con i loro effetti operativi di grandi progressi in tantissimi ambiti, non devono “stregarci”. Cioè devono rimanere, come ogni tecnica è sempre stata, un’estensione strumentale dell’operatività umana, ma non devono asservirla a fini non umani di alienazione sociale in generale, e a fini non umani di altri umani, cioè di alienazione di controllo concentrata in poche mani. La seconda risposta irrinunciabile è di evitare la proliferazione incontrollata delle tecnologie digitali in ambiti fondativi della relazione umana di presenza: dalla formazione, la scuola, al lavoro, alla vita di relazione in generale e a quella del “tempo libero” in particolare. Scuola, lavoro, tempo libero devono restare luoghi di incontro fisico, di interazione psico-fisica tra le persone, quella dove nasce e si custodisce la vita di “presenza”, l’esperienza reale e non virtuale che ci rende e di mantiene intelligenze incarnate, emotive, relazionali in senso proprio e non in senso informazionale, la distopia degli inforg, degli organismi informatici che richiederebbe l’infosfera, la società del digitale e dell’IA.
Visori, sensori, avatar. Molto viene offerto come un gioco divertente e coinvolgente. Perché mai i più non comprendono che quella che reputano la propria esperienza sensoriale, in realtà, non è più la “propria”?
Perché ormai siamo già largamente vittime dei prodotti tossici delle nostre tecnologie digitali, come lo siamo da decenni delle nostre tecnologie energetiche ad esempio. E poi perché ormai abbiamo generazioni che sono come si dice “nativi digitali”, cui gli strumenti digitali sono messi in mano letteralmente appena finito lo svezzamento. Già la definizione è drammatica: non descrive una realtà neutra, ma una realtà dell’esperienza già orientata alla distopia. Se si aggiunge che le tecnologie del Metaverso funzionano come le nostre strutture neuronali, in parallelo analogico per così dire, ci rendiamo conto che siamo avanti sulla strada di non saper più distinguere realtà e realtà alienata; alienata, dove cioè di nostro c’è ben poco e siamo colonizzati anche mentalmente dall’ambiente digitale, virtuale, innaturale che abbiamo costruito.
“Qui tutto è distanza / e là era respiro. Dopo la prima patria / questa seconda gli è ibrida e ventosa” (Rilke, Elegie duinesi, Ottava Elegia). Può commentare questi versi per noi?
Ho voluto chiudere il libro con questi versi di Rilke, perché mi sembrano esprimere bene il rischio esistenziale che corre lo “spirito umano”, in concreto quel vissuto bio-psico-fisico che siamo nel mondo del distanziamento digitale, virtuale dalla vita di presenza: la perdita del respiro caldo, avvertito dell’altro, lo spaesamento dell’esperienza esposta ai venti incontrollati e incontrollabili dell’ibridazione virtuale della realtà. Venti che rischiano di svellerci dalla “terra”, dalla nostra terrenità carnale, consegnandoci all’inospitalità per l’umano di questa presunta vita “aumentata” che ci garantirebbe l’ibridazione virtuale della realtà.
Eugenio Mazzarella, filosofo, politico, poeta, è professore emerito di filosofia teoretica presso l’Università Federico II di Napoli. È stato preside della Facoltà di Lettere e filosofia dell’ateneo fridericiano, e deputato della Repubblica nella XVI Legislatura. È tra i maggiori interpreti di Heidegger e Nietzsche a livello internazionale. Per Carocci sono stati di recente ripubblicati due suoi classici studi: Tecnica e metafisica. Saggio su Heidegger (2021; 1ª Guida, 1981) e Nietzsche e la storia. Storicità e ontologia della vita (2022; 1a Guida, 1983). I suoi lavori hanno proposto un complessivo ripensamento della filosofia e dell’antropologia della tecnica, lungo il filo conduttore della necessità della resilienza dell’umano alla deriva post-umana dell’uomo tecnico, allo spaesamento della potenza dell’artificio: Vie d’uscita. L’identità umana come programma stazionario metafisico (il Melangolo, 2004; tr. spagnola Tirant lo Blanch, 2016 ); L’uomo che deve rimanere. La smoralizzazione del mondo (Quodlibet, 2017). Tra i suoi lavori più recenti: Il mondo nell’abisso. Heidegger e i Quaderni neri (Neri Pozza, 2019; tr. tedesca Ergon, 2020); Perché i poeti. La parola necessaria (Neri Pozza, 2020); Colpa e tempo. Un esercizio di matematica esistenziale (Neri pozza, 2022); Europa Cristianesimo Geopolitica. Il ruolo geopolitico dello “spazio” cristiano (Mimesis, 2022); Contro Metaverso. Salvare la presenza (Mimesis, 2022). Apprezzato poeta ha pubblicato diverse raccolte di versi, tra cui Opera media (il Melangolo, 2004) e Anima Madre (Paparo Edizioni, 2015); per Crocetti è in uscita (marzo 2023) la raccolta Cerimoniale.
Professore, la Mostra espone i costumi di Danilo Donati meravigliosi, secchi colori arcaici, esposti nella veste nuda: essenziali, poveri, arte poverissima…Quali le sue considerazioni?
Sono rimasto colpito soprattutto dai costumi creati, esaltati nei “falsi” colori ( nel silenzio delle voci” abitate” dei corpi freddi, pensieri sudati anche lucenti ) specialmente quelli indossati dai personaggi protagonisti nei capolavori del grande poeta -cineasta sino a quegli ultimi medio borghesi di Salò…; e poi, percorrendo le sale, il B/N meraviglioso sette, otto foto o più ( mi ricordo, si io ricordo ….era solo ieri l’altro o qualche mese fa () sulla parete in basso a sinistra del grande poeta con la madre tenero, infinite solitudini solcano l’atmosfera dell’appartamento di via Eufrate, e qualche tepido sorriso sparso appare; e nella sala media giganteggia l’intera parete coperta dalle tante denunzie(!) e assoluzioni del grande poeta: (In) giustizia “ben amministrata” nel nome del popolo italiano. Il potere giudiziario ( Terzo potere individuato da Montesquieu) che persegue e annienta, sotterra le esistenze tutte ed anche….le cose con ferocia inaudita; lì anche esposti i fogli fascisti ( Lo Specchio, il famigerato Il Borghese e altri scandalizzati settimanali fotografici: insulsi gazzettieri ( al soldo del Padrone si diceva allora), scrivani su tricicli a rotelle in foto d’epoca) cani divoranti, raccontano di “reati efferati”, e vari i vilipendi perpetrati da Pasolini: invero Egli dissacrava, gridava alle nudità delle loro coscienze… ed anche alle nostre… () “Mi ricordo, sì, io mi ricordo …” Negli intermezzi della lavorazione in Portogallo di Viaggio all’inizio del mondo di M .De Oliveira, fra le montagne e il mare….Marcello Mastroianni si fa “girare” e meravigliato racconta… l’incontro col grande lusitano.
E, in seguito, il proseguir “guardando”…Illumination ….el Rimbaud di Casarsa. E’ bastevole la denuncia?
Non fu sufficiente gridare, denunciare, scrivere e poetare, egli perì come noi ora (in)umani,consapevolmente, sappiamo. Sorte atroce ma ancor prima il flagello, crocifissione e morte non sulla croce ( qui morivano i poveri diavoli “quasi ultimi” della Terra, affamati di luce: il sole africano mai stanco, antico arroventa l’aria, esalta le ombre ,uccide le pietre e la terra è fumo chiaro: al Mandrione o in Via Formia, tra l’Acquedotto romano e il Pigneto, ponte Testaccio e Casal Bertone …. (Stracci, Accattone , Ettore, la morte li attende e tanti altri, Balilla, Peppe il Folle, Cartagine, Nannnina, Bruna…( Er Pecetto ,uno dei Ragazzi di vita che va narrando ancora i respiri disperati del poetare) sopra-vivono appena, sottoproletari delle borgate alle foci del feroce neocapitalismo del XXX° e del IV °mondo assaliti da epica povertà. Lui morì su uno sterrato freddo, non lucente, epico come la morte dei suoi personaggi, in una notte dove anche la Luna era assente (1/2 novembre 1975) . Qui si dissolse nel fisico ( non nello Spirito) la sua vita poeticamente disperata ,avvolta nell’estremo sudario: cantò il mondo, lo esaltò tremendo quanto agognato ( l’ eterno ritorno): una esistenza di straordinaria, visionaria, vitalità, e passionale” follia” Tantissime cose ancora si possono dire.. mi fermo qui per non tediare le persone a cui mi brigo d’inviar queste minute riflessioni.
La mostra bisogna vederla e…rivederla…, rincorrerla nelle otto ampie sale…Quale ambiente reputa ineludibile?
E’ d’obbligo fermarsi parecchio nella stanza piccola dove magnificente, la Bellezza appare , tra pioppi e prati, cammina con passo lieve( non ci sono margherite, solo erba); li si… “coglie” una Madonna in…posa ( una Pala d’altare!), una moderna Madonna che rivive ed esalta le forme nello spirito purissimo delle Grazie, pudicizia e degnità s’esaltano nelle sporgenze pre-medievali e d’altri secoli a venire. Una Giocasta moderna ed antica col pargolo in fasce che avidamente…. “surge alla vita e va dentro….”() ; e la musica mozartiana dissonante (quasi dodecafonica) presidia il rettangolo che si allarga, s’innalza tra la luce dei faggi , esalta la visione e la bellezza: la forma che s’erge su pei campi e i declivi della terra d’Emilia ove la luce dalle terre sprigiona, s’ incunea sottile tra le fronde il primitivo affetto s’invera: una Mangano straordinaria, radiosa, meravigliosa, nell’espanso,- quasi roteante primo piano -, una Madonna casta di non eterea beltà.() Ecco che il corpo poetico (Lei nella Mostra ,….móstra anche l’”oltre”… ) assume tutta la sua grandezza antica : l’arcaico già avanza e s’avvera d’appresso nella barbara, rupestre Medea ( callasiana) della Colchide. () Dal Canto XXV° del Paradiso dantesco.
(**) E’ esangue, eterea la Mangano in Teorema ( come si addice al personaggio), veste i panni di Lucia – uno dei cinque personaggi più importanti del film. In Edipo re ( primi fotogrammi già illuminano: da lì un balzo si giunge a Tebe) le mosse e l’ambiente sono autobiografiche del poeta ( siamo negli anni ’30) nelle terre folgoranti di luce dai tramonti obliqui ,ripiegati verso il cielo, tanto care a Bernardo e ad Attilio Bertolucci.
L’umano che va…alle Mostre: quali considerazioni?
…Sfinente dopo 4 ore- quasi cinque – di… visioni( in cui ho scambiato impressioni con altre persone: due romani e due forestiere(!), prendo l’uscita e ritorno a casa col fuoco e lo splendore (ancora) negli occhi…. Mostre come queste, bisogna vederle,…”mirarle” anche con gli occhi degli altri che passano accanto silenti, e pensano forse le stesse cose che anche tu pensi: emozioni illuminanti, pensieri non sciolti , sparsi (racchiusi in memoria). Bisogna…”orecchiare”, “annusare” la gente, gli ospiti che guardano, si fermano e riprendono a guardare, e sentire…. Porgere le orecchie…. Bisogna visionare le Mostre di tale splendore, poiché nelle attuali epoche ( poco si concede); tremenda, minacciosa è la tecnologia che domina il tempo nostro, cui assistiamo: noi poveri visitatori e cultori d’arte imprigionati in una sorta di analfabetismo biologico; le Mostre purificano il pensiero, affondano le menti, acuminate sono le visioni, ossessioni pūre. Qui l’arte della visione è semplice e, al tempo stesso complessa, non è facile “vedere”, “sentire”, “ascoltare”, con i tre organi: Occhio, Orecchio ,Bocca tuttavia: le orecchie… per “guardare”, l’udito” per vedere” e con la bocca comunicare, l’anima si riempie di fine ossigeno spirituale.
La contemplazione del Bello: come guardare?
Per ultimo, la cosa più importante, è il momento contemplativo: si guarda appunto e si contempla…con attenzione sino a…giungere e svegliar il risveglio; il vero risveglio avviene durante lo stato di veglia, l’occhio è lucido (attento!) del guardare”, osservare ove lo scarto lieve è l’incanto della meraviglia. Il vortice linguistico che porta luce: la decostruzione del reale, parole e significati () 1) Scusate il tedio da me ancora provocato. Prometto a me di prender sosta,… ma vado avanti sempre. Infine il commento di cui parlo all’inizio non è affatto esiguo…. () Jacques Derrida- Filosofia della decostruzione: significati e luce, segreti e concetti, il vortice linguistico e le parole.
(2) Frase che pronunciò Carmelo Bene contro i giornalisti del tempo (‘60/’80 ) rivolta in particolare a Renzo Tian “gazzettiere” de Il Messaggero di Roma- Nota extra Molto importante la musica diffusa e soffusa nell’ambiente della Mostra. Sono echi e richiami “selvaggi”, antichi ed arcaici dei tempi pre-storici ( atti in musica del Dopostoria ) riferiti ai film girati in Africa( Marocco, Egitto, Yemen) e in Cappadocia. In questi luoghi Pasolini girò Edipo re, Medea, Il fiore delle mille e una notte, Le porte e le mura di Sanaa, Appunti per una Orestiade africana e altro. Da qui i viaggi con Alberto Moravia, Elsa Morante, Dacia Maraini. E al ritorno in Italia a Fiumicino”……
….Come in un film di Godard: solo in una macchina che corre per le autostrade del Neo-capitalismo latino – di ritorno dall’aeroporto – [là è rimasto Moravia, puro fra le sue valige] solo, “pilotando la sua Alfa Romeo” in un sole irriferibile in rime non elegiache, perché celestiale il più bel sole dell’anno – come in un film di Godard……
Michele Castiello, Docente di Storia del Cinema UPTER Roma
La filosofia italiana è viva e vegeta, eppure vige ancora quell’approccio “museale” volto solo a conservarne il glorioso passato. Quale prospettiva adottare per ripensarla, rivitalizzarla e renderla operativa nell’attualità?
Per evitare quell’approccio che, nel mio libro, ho definito “museale” – volto cioè a un recupero fine a se stesso del passato – è possibile assumere la prospettiva adottata dall’Italian Thought, un movimento filosofico, nato in Nord America, in seguito alla traduzione in inglese delle opere di autori italiani tuttora in attività. Il pensiero di filosofi come Roberto Esposito, Toni Negri, Giorgio Agamben, Gianni Vattimo e Adriana Cavarero – per citare soltanto i più noti – è oggi particolarmente studiato nei paesi anglosassoni. Ma non solo. Esso si è diffuso anche in Europa, America Latina e persino in Giappone. In breve, tale vettore speculativo – altrimenti noto col nome di Italian Theory – è una modalità teoretica di ripensare la nostra tradizione. In altre parole, esso risponde all’odierna necessità di far fronte ai cambiamenti e all’accresciuta complessità del mondo contemporaneo, elaborando nuove categorie all’altezza dei tempi, senza però rigettare il patrimonio filosofico che ci precede.
L’Italian Thought gode di successo internazionale. Cosa rende il pensiero italiano così apprezzato e studiato all’estero e quali sono le sue peculiarità?
Il successo del pensiero italiano è dovuto, io credo, a taluni suoi tratti distintivi che lo rendono particolarmente originale e attuale. Come ho detto, l’odierno Italian Thought risponde all’esigenza – sempre più sentita – di concretezza e di nuove categorie che siano in grado di leggere la complessa realtà di cui siamo abitatori, a distanza di sicurezza da certe filosofie senza alcuna connessione con il mondo della vita, della storia, della politica. Per dirla con le parole di Roberto Esposito, “la nostra non è stata né una filosofia della coscienza, come quella classica francese, né una elaborazione metafisica come la tedesca. Ma non è stata neanche una filosofia della logica e del linguaggio, come nei Paesi anglosassoni. Non è stata un’analitica dell’interiorità, della trascendenza, delle strutture logico-linguistiche, ma un sapere della vita, del corpo e del mondo”.
Da Dante a Vico, da Machiavelli a Gramsci: una tradizione nazionale unitaria, una traccia, un fil rouge pur nella loro differenza tematica?
Sì, vi è senz’altro una linea di continuità che attraversa il pensiero filosofico italiano da Dante a Gramsci fino all’odierno Italian Thought. Ma questo non significa, cela va sans dire, che la nostra tradizione possa essere ridotta a un’unica cifra peculiare. È vero che quella italiana è stata più una filosofia della “ragione impura”, attenta alla dimensione della concretezza storica e al mondo della vita, insomma a ciò che Machiavelli chiamerebbe “verità effettuale”, ma è altrettanto vero che gli autori, gli indirizzi, i centri di produzione culturale sono molteplici e rendono policromatica la storia del pensiero italiano. Non a caso, i quattro autori paradigmatici che ho preso in esame nel mio libro – Bertrando Spaventa, Giovanni Gentile, Eugenio Garin e Roberto Esposito –, pur condividendo l’esigenza di ripensare la nostra tradizione, ma lontani da un suo recupero meramente erudito e fine a se stesso, non valorizzano le stesse correnti filosofiche né, di conseguenza, sviluppano le medesime tematiche.
È praticabile una terza via alternativa sia al nazionalismo che al globalismo?
Non soltanto è praticale, ma è auspicabile. Come noto, uno degli esiti nefasti del globalismo è la riduzione delle molteplici culture a un’unica cultura mondiale. La soluzione a questa tendenza non può certo essere il nazionalismo, da respingere tanto quanto il paradigma “globalitario”, bensì una terza via che nel libro ho definito “internazionalista” e che si ispira al “cosmopolitismo di nazioni” di cui parla Mazzini. In tale paradigma, le peculiarità culturali – lungi dall’essere annullate – vengono conservate nelle relazioni armoniche inter nationes. D’altronde, come ha scritto giustamente lo stesso Gioberti, “né i partimenti nazionali offendono l’unione cosmopolitica, anzi ne fanno parte, perché l’universale non può stare senza il particolare e il conserto maggiore presuppone quelli di minor tenuta. Nei tempi antichi le nazionalità e le patrie erano contrarie alla cosmopolitia, perché la scarsa coltura fra loro le inimicava”.
Il filosofo può intendersi come paradigma dell’umanità?
Senz’altro può essere un modo di intenderlo, almeno stando alle celebri definizioni del filosofo come “funzionario dell’umanità” di Husserl e – prima ancora – dell’intellettuale come “maestro del genere umano” di Fichte. Fra l’altro, non mancano pensatori italiani che, già in epoca rinascimentale, concepivano la filosofia in questi termini. Si pensi a Tommaso Campanella, il quale scrisse significativamente: “Io nacqui a debellar tre mali estremi: tirannide, sofismi, ipocrisia”. E si adoperò attivamente in tal senso: scrisse la Città del Sole, un’utopia che cercò di realizzare concretamente, organizzando in Calabria – sua terra natìa – una rivolta che avrebbe dovuto sovvertire l’allora governo spagnolo e “offrire quasi un esempio preliminare della grande repubblica universale che si deve preparare”. Arrestato nel 1599, Campanella non riuscì a mettere in pratica questo suo ambizioso progetto politico-filosofico. Un destino analogo era già toccato all’altro grande pensatore italiano di quel periodo, Giordano Bruno, che – di lì a poco – sarebbe stato arso vivo in Campo de’ Fiori. I due grandi sconfitti del nostro Rinascimento sono ancora oggi modelli paradigmatici di vite autenticamente filosofiche. Persino, appunto, nella sconfitta, che Bruno, in uno dei passaggi più potenti e attuali della sua opera, ci insegna ad affrontare: “Ho combattuto, è già molto: ho creduto di poter vincere (ma alle membra venne negata la forza dell’animo) e la sorte e la natura hanno represso ogni velleità ed ogni sforzo. È già qualcosa l’essersi cimentati: la vittoria, mi sembra, è nelle mani del Fato; per quel che mi riguarda ho fatto il possibile e ciò che mi appartiene non lo potranno negare né i secoli futuri né ciò che appartiene al vincitore cioè il non aver temuto la morte ed il non aver consentito ad alcun mio simile di anteporre una morte gloriosa ad una vita imbelle” (De Monade).
Corrado Claverini è assegnista di ricerca in Filosofia presso l’Università del Salento. Ha conseguito il Dottorato in Filosofia presso l’Università S. Raffaele di Milano. Tra le sue pubblicazioni: La tradizione filosofica italiana. Quattro paradigmi interpretativi (Quodlibet, 2021); Utopia concreta. Pensiero utopico e ideologia in Niccolò Machiavelli e Tommaso Campanella (Il Prato, 2015); Spaventa, Gentile e la tradizione italiana, «Il Pensiero», 57/2, 2018; Dove va la filosofia italiana? Riflessioni sull’Italian Thought, «Phenomenology and Mind», 15, 2018. Sua la curatela del fascicolo L’Italian Thought fra globalizzazione e tradizione, «Giornale Critico di Storia delle Idee», 1, 2019.
Professor Traina, le ideologie del nazismo e del fascismo hanno alimentato le rispettive ideologie in nome delle radici classiche dell’Occidente: purezza della razza e maschia romanità. Qual è la sua opinione al riguardo?
Gli svariati cultori, più o meno seri o improvvisati, della Fortuna dell’Antico dovrebbero riflettere su un dato di fatto: in nome delle radici greche e romane dell’Occidente (quelle romane vennero esaltate soprattutto dai gerarchi di casa nostra), l’antichità classica è stata rivendicata per giustificare le peggiori nefandezze. Del resto, prima ancora dei regimi totalitarismi che hanno funestato il Secolo Breve, i vari nazionalismi e colonialismi avevano ampiamente preparato il terreno. Restando in tema, basterà fare un esempio relativo al Terzo Reich, che fece abbondante uso e abuso della Grecia classica. Riproponendo il tradizionale collegamento fra antichi greci e tedeschi moderni, gli ideologi nazisti non si limitarono ad affermare la comunanza spirituale tra i due popoli, ma si spinsero a rivendicare la comunanza del Blut “sangue”. Attuando così, come ha ricordato l’amico Johann Chapoutot, una vera e propria “annessione razziale della Grecia antica”. Certo, molti gerarchi —a cominciare dal potentissimo Himmler— preferirono esaltare i germani, più primitivi ma in compenso puri e incontaminati. Che però piacevano solo relativamente al Führer, fedele alla tradizione del classicismo tedesco; più consono ai suoi gusti di artista mancato. Fu l’ideologo Alfred Rosenberg a trovare una soluzione soddisfacente quanto forzata: i greci altro non erano che colonizzatori nordici. Problema risolto. Nel 1936, la propaganda delle Olimpiadi di Berlino tradusse anche sul piano dello sport questa brutale forzatura dell’antico; che fu portata sugli schermi da Leni Riefenstahl. Nel prologo del documentario Olympia (1937), la disinvolta regista ricorse a un effetto di animazione: vediamo così il Discobolo dello scultore Mirone da Eleutère prendere gradualmente forma umana fra le rovine di Olimpia, e trasformandosi nell’insegnante di educazione fisica Edwin Huber da Karlsruhe, virile atleta e insegnante di educazione fisica. A Berlino, però, il virile atleta non gareggiò nel lancio del disco maschile, bensì nel decathlon. Dove però si piazzò solo al quarto posto. Tutte le medaglie andarono a tre americani, vedi come va il mondo.
In tempi recenti Antigone è stata tirata in ballo per attaccare le misure sanitarie contro la pandemia da COVID-19…
Nel nostro dialogo di qualche tempo fa avevo parlato di una delle mie bestie nere, l’Umanista Semicolto. https://giusycapone.home.blog/2022/02/28/la-storia-speciale-perche-non-possiamo-fare-a-meno-degli-antichi/ Mi permetto di sintetizzare quanto già affermato: nemici della mia disciplina non sono solo i tecnocrati: per “umanisti semicolti” non intendo infatti ai soggetti semianalfabeti, o per dirla con Adorno quelli “semieducati”. Nella mia definizione personale, si tratta di soggetti con un’accettabile cultura generale, penalizzati però dalla loro mancanza di curiositas che li porta a stabilire una gerarchia delle discipline umanistiche. Riporto i miei ipsissima verba: “Complici alcuni insegnanti che non hanno saputo o voluto appassionarli ai tempi della scuola, e di qualche autore di libri di storia “in una situazione complicata” con la propria lingua, i nostri eroi si dilettano di arte, filosofia o letteratura, dando però poco peso alle discipline storiche, e a maggior ragione alla storia antica, ridotta a un pacchetto di date, personaggi, e naturalmente battaglie: tutto poco interessante rispetto all’Arte povera, i cronopios di Cortázar, la biopolitica di Foucault (e mettiamoci pure quella di Agamben), o altri rimedi infallibili per brillare in società, o meglio sui social.” Ecco, Antigone è una delle poche cose che l’Umanista Semicolto —se non coltiva qualche interesse per il mondo antico e insegna, chessò, matematica alla Sapienza— ritenga degna di esser tenuta da conto. Questo vale anche per i politici, e persino per i pensatori di successo. Più o meno contemporaneamente, c’è chi ha paragonato la fanciulla tebana alla capitana Carola Rackete e chi al suo avversario Matteo Salvini, a suo modo capitano anche lui. Il suddetto Agamben, poi, ha voluto evocare per l’eroina immortalata da Sofocle per stigmatizzare chi cercava di arginare i danni della pandemia nel suo momento più critico. *PUBBLICITÀ* Non entro nei particolari perché ne parlo nel libro, che vi invito ad acquistare e a regalare in giro senza moderazione.
All’Antico si attinge costantemente e, soventemente, impropriamente. Reputa che in Italia si rischi di concorrere con il Caesars Palace di Las Vegas?
Il Caesars Palace degli anni d’oro, con il ristorante Bacchanal dove le cameriere accoglievano la clientela con un outfit classicheggiante quanto discinto (“i pepli superflui”: giuro, sarà l’unica freddura), non esiste più. E anche le “americanate” in salsa greca e romana non sono più le stesse di una volta. In Italia, tra i residui di questa paccottiglia, rimane qualche ristorante vintage o una più recente catena di pizzerie a tema “anticoromano (non ci sono mai andato, ma a dispetto del latino improbabile del menù le pizze sembrano buone). In compenso, ho l’impressione che un certo kitsch stia cominciando a diffondersi nei nostri musei nazionali. Intendiamoci: a differenza di quei professionisti talebani dei Beni Culturali che sparano a zero sempre e comunque sulle trovate del Ministero e dei direttori di museo, personalmente sono abbastanza tollerante: se certe cose un po’ strane attirano i visitatori e le scolaresche, why not? Trovo ben più disdicevole quegli allestimenti o quelle mostre in cui la storia cede interamente il passo a una museologia fondata esclusivamente sull’estetica del bel pezzo. Ma, si sa, il sonno della Regione genera mostre (oops, un’altra freddura. È l’ultima). Oltre al patrimonio materiale, c’è anche quello immateriale delle tante idee e nozioni distorte circolanti in rete. Del kitsch si è appena detto; ma non trascuriamo il trash, che è ancor più devastante perché, a differenza del kitsch, si tratta di una dimensione non voluta. Farò un esempio attinto ancora una volta al bestiario italiano. Una premessa: la maggioranza dei nostri compatrioti non ha mai letto Tucidide né in greco né in traduzione (e fin qui non c’è nulla di male, a patto che almeno quelli più colti abbiano letto Erodoto, quello sì). Eppure, sono stati in tanti a improvvisarsi classicisti per rilanciare in rete, magari sbagliando anche la data, il testo in cui Paolo Rossi (il comico, non il calciatore) si era ispirato al discorso funerario in onore dei morti ateniesi nel primo anno della Guerra del Peloponneso, che Tucidide fa pronunciare a Pericle. Nulla da dire sullo spettacolo, che denunciava il pericolo alla minaccia di certi politici ai valori della nostra Costituzione: solo che molti hanno creduto, e tuttora credono che le parole di Rossi, col celebre tormentone “qui ad Atene facciamo così”, siano in realtà quelle di Pericle-Tucidide. C’è cascato persino Carlo Calenda, che ha fatto il Liceo classico: vedete un po’ voi.
Professore, si reputa che lo studio dell’antichità si sia piegato all’idea che i valori della società bianca occidentale siano posti al di sopra degli altri. Secondo lei si tratta di un ostacolo per il futuro degli studi di antichistica? E pensa anche lei che la cosiddetta “cancel culture” sia un pericolo per gli studi classici, come molti affermano?
Se parliamo di quanto si verifica negli Stati Uniti, lascio la parola ad Alice Borgna, che nel suo libro Tutte storie di maschi bianchi morti… (Laterza 2022), e anche sul suo blog https://giusycapone.home.blog/2023/02/15/tutte-storie-di-maschi-bianchi-morti/, ha spiegato come siano realmente andate le cose. A parer mio, nel discorso antichistico attuale, la Cancel Culture è un MacGuffin (non googlate, andate direttamente qui https://it.wikipedia.org/wiki/MacGuffin) da tirar fuori come trucco per tenere in sospeso gli spettatori e, nel nostro caso, i lettori dei millemila articoli e saggi dedicati a questa nuova minaccia per la Cultura Occidentale. E poi la Cancel Culture sta bene su tutto, e si può usare agevolmente come clickbait nella speranza di emergere nell’agone mediatico, o per incuriosire gli avventori delle librerie che vedono “Cancel Culture” sul titolo di un libro che in realtà parla soprattutto di mondo antico. Prima o poi questa moda finirà per passare: intanto, vediamo di occuparci di argomenti più interessanti. Da parte mia, preferisco insistere su un equivoco corrente, in cui incorrono più o meno volontariamente sia i colti che i semicolti: che l’antichità classica coincida con l’antichità tout court. Gli stessi “degustatori dell’antico” che si stracciano le vesti per la decadenza dei loro studi non si sono mai posti il problema delle altre civiltà “classiche” come quella persiana, indiana o quella cinese: figuriamoci quelle tribù e comunità che gli stessi antichi disprezzavano in quanto barbare. Come ho già spiegato in un’altra intervista (https://ilmanifesto.it/la-retorica-latina-non-e-da-tribunale: non badate al titolo, non l’abbiamo proposto né io ne l’intervistatrice), non possiamo continuare a considerare i greci e i romani come gli unici pilastri della nostra civiltà, né nei corsi di laurea in Lettere classiche né altrove. Come le nostre nonne che guardavano gli scandali e le miserie di Soap opera quali Dallas o Beautiful, concludendo “meno male che non viviamo in America”, molti nostri classicisti anche blasonati si accaniscono a tuonare contro i wokist, limitandosi alle notizie diffuse apposta per +indignarli, lette come se fossero programmi televisive. Ovvero passivamente, bevendosi tutto senza preoccuparsi del fact checking. Così, ciascuno vuol dire la sua a proposito di quella scuola di terz’ordine che vuole eliminare Omero dal programma, o di quell’università di prestigio che cerca di rimediare al calo delle iscrizioni proponendo un’antichità più inclusiva. Certo, l’ideologia woke ha conosciuto preoccupanti sbavature censorie, ma si sa, sono americani, e la censura la praticano anche certi ammiratori di Donald Trump. Detto questo, come ripeto da anni, l’antichistica del futuro sarà inclusiva o non ci sarà proprio. Ma questa è una prospettiva ottimistica, e temo che il futuro sarà più pessimistico. Un mio carissimo amico, valoroso grecista e blandamente conservatore, ha dato la risposta definitiva: “Altro che Cancel Culture d’Oltreoceano: ci stiamo abbondantemente cancellando da soli”. Un po’ come gli inetti notabili della poesia di Kavafis Aspettando i barbari. Che poi si lamentano perché i barbari non sono arrivati, hai visto mai, magari risolvevano qualcosa.
Giusto Traina insegna Storia romana a Sorbonne Université. Si occupa attualmente di storia militare e geopolitica antica, in particolare dei rapporti tra Roma e l’Oriente. Ha pubblicato di recente La storia speciale. Perché non possiamo fare a meno degli antichi romani (Laterza, 2020) e, insieme ad Aldo Ferrari, Storia degli armeni, Il Mulino, Bologna, 2020; Marco Antonio (Laterza, edizione aggiornata 2022); La guerre mondiale des Romains. De l’assassinat de Jules César à la mort d’Antoine et Cléopâtre, (Fayard, 2023); I Greci e i Romani ci salveranno dalla barbarie (Laterza, 2023).
Nel dicembre 1973, per la Commissione Cinema del Comune di Bologna e la Mostra Internazionale del Cinema Libero di Porretta Terme, Vittorio Boarini, allora direttore della Cineteca di Bologna, e Pietro Bonfiglioli, critico di arte, letteratura e cinema, curarono un convegno che avrebbe avuto un ruolo storico nella vita culturale della città e che si intitolava Erotismo, eversione, merce. Qual è l’attuale chiave di lettura politico-filosofica da adottare?
Recentemente l’editore Mimesis ha ripubblicato gli atti di quel prezioso convegno a cui partecipò anche Pier Paolo Pasolini. Parlando di censura cinematografica, lo scorso aprile l’ormai ex Ministro della Cultura, Dario Franceschini, ha abolito l’organo censorio in Italia. Infatti un film, anche se può suonare strano, fino allo scorso anno – per essere proiettato in pubblico, dunque distribuito in sala, necessitava di un visto ossia di un vero e proprio “permesso” da parte del Ministero che – all’epoca dei film di Pasolini – era il Ministero del Turismo e dello Spettacolo. Questo permesso veniva concesso (o meno) da apposite commissioni di censura che – proprio al fine di rilasciare il nulla-osta – potevano pretendere tagli di sequenze, scene, modifiche di battute, oscuramenti di vario genere che in molti casi, alteravano i messaggi dell’autore. Oggi la censura non esiste più. Ma è davvero così? Non esiste pur sempre una forma più subdola di censura della verità in generale ossia di mistificazione? Per rispondere alla Sua domanda, mi perdoni la lunga premessa, ritengo che la chiave di lettura politica, filosofica, esistenziale, l’atteggiamento tout court da adottare in prima istanza si identifichi col cercare la verità spogliandosi dei preconcetti e delle tante, troppe – direbbero gli antichi greci – “doxa” ossia pure opinioni che hanno pretesa di verità. Uno dei maggiori drammi della nostra società contemporanea è – a mio giudizio – un indebolimento della capacità critica e di analisi. Ecco, bisognerebbe tornare seriamente allo studio della filosofia nelle scuole superiori di ogni genere, all’esercizio del pensiero. Andare a fondo, questo è il primo e fondamentale passo.
Felix Guattari, Ado Kyrou, Fernanda Pivano, Gianni Scalia, Elémire Zolla e Pier Paolo Pasolini tra gli intervenuti ad esemplificare i termini di un dibattito di non scarse suggestioni anche circa la censura. Oggi, la rappresentabilità e la rappresentazione del sesso sono divenute un obbligo? Oggi, come negli anni settanta, a seguito della cosiddetta rivoluzione dei costumi, quando si verificò un impeto quasi aggressivo di mostrare il sesso, gli organi sessuali, un universo di cui era proibita la rappresentazione fino a poco prima; atteggiamento psicologico tipico di una post-repressione. Ma non a caso, Pasolini – inimicandosi i giovani di allora – la chiamava “falsa” rivoluzione dei costumi poiché dettata dalla società edonista e capitalista che riduce l’uomo a ciò che compra instillando in lui bisogni che non esistono. La rappresentazione del sesso non è un obbligo oggi ma è ormai dato di fatto che, credo, non attiri particolarmente l’attenzione.
Le scelte estetiche sono soventemente scelte sociali, sostenne Pasolini. Lo spazio espressivo si è allargato fino alla rappresentazione di corpi nudi ed amplessi espliciti. Qual è stata l’evoluzione del comune senso del pudore in special modo della società borghese italiana? La celebre espressione “comune senso del pudore” oggi appare quasi anacronistica come, a volte nel linguaggio comune spicciolo, lo è quasi la parola “pudore” stessa. Nella Sentenza di dissequestro dell’ultimo film di Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma si legge “il popolo italiano è abbastanza maturo da percepire queste immagini senza traumi”. Nella società odierna dove anche i minori provvisti di uno smartphone hanno accesso a qualsiasi contenuto possibile in rete, il senso comune del pudore sembra essersi dissolto nell’abitudine al sesso e ai rapporti sessuali sul grande schermo e sul “piccolo” schermo privato che è il pc o la televisione in cui quasi tutti vediamo le serie disponibili su apposite piattaforme come Netflix. Dire che si è evoluto però forse non è corretto. È cambiato e – in alcuni casi – si è involuto. Mi spiego subito. Assistiamo oggi ad un Paese diviso in due: chi si scandalizza per i diritti della comunità LGBTQIA+, chi vorrebbe negare alle donne la possibilità di abortire, chi propone un cimitero pubblico dei feti abortiti. Mi sembra quindi di permanere in una perenne lotta contro forme di oscurantismo.
L’immaginario letterario e l’attività giornalistica di Paolini nella sua produzione cinematografica. Ha ritrovato segni, rimandi, riverberi? Pasolini era un intellettuale a trecentosessanta gradi. Aveva alle spalle una cultura classica, letteraria, poetica, artistica persino musicale incomparabile inoltre si interessava di antropologia, religioni, mitologia, filosofia e naturalmente – in quanto giornalista – la sua prima vocazione era la verità, la realtà che incessantemente studiava e analizzava. Da intellettuale umanista quindi, mischiava i piani, sperimentava, non viveva la cultura a compartimenti stagni. Basti pensare alla reinvenzione del mito in Edipo Re e Medea oppure ai tre film che compongono la Trilogia della vita: il Decameron, i Racconti di Canterbury, Il fiore delle mille e una notte tratti e reinventati – rispettivamente – da Boccaccio, Chaucer, dalla novellistica araba. Ma Pasolini fa di più: interpreta, si appropria del mito o dell’opera letteraria per aggiungere altro, personalizza, infonde altri significati, le rende sue.
Esiste ed è definibile un’attualità pasoliniana per gli autori di film che sono arrivati il 2 novembre 1975, giorno della morte di Pasolini?
Deve esistere. I Maestri come Pasolini non smettono mai di parlarci, di insegnarci. Non smettono di essere fonte di ispirazione. In ambito cinematografico italiano contemporaneo, parlando di giovanissimi, ad esempio, seguo con particolare attenzione i lavori dei fratelli D’Innocenzo, Damiano e Fabio. Ho amato molto Favolacce che nella sua crudezza e nella ripresa diretta di una vera realtà provinciale disperata e di personaggi altrettanto disperati, mi ha ricordato Pasolini.
Giorgia Bruni
Baccelliere in filosofia presso la Pontifica Università Lateranense di Roma, nel 2012 si laurea in lettere e filosofia (I livello) presso l’università LUMSA con una tesi in letteratura cristiana antica, sul ruolo della donna nel cristianesimo del IV secolo. Nel 2015 – presso l’università Sapienza – si laurea in lettere moderne (II livello) con una tesi sulla Trilogia della Vita di Pier Paolo Pasolini. Nel 2019 – sempre presso la Sapienza – diviene Dottore di Ricerca in Spettacolo, curriculum Cinema con un progetto di ricerca sulla censura cinematografica nella filmografia di Pier Paolo Pasolini: da Accattone a Salò. Collabora con la rivista di cinema Diari di Cineclub diretta da Angelo Tantaro, con la rivista Studi Pasoliniani diretta dal Prof. Guido Santato, è autrice di podcast su Pier Paolo Pasolini per il canale Diari di Cineclub Radio. Tra le sue pubblicazioni si menzionano il saggio La censura cinematografica contro Pasolini: Accattone sul banco degli imputati in Le favole dell’idiota; volume a cura di Francesco Iezzi (Lithos – 2018) e La dimensione autobiografica in Atti impuri, Amado mio e Romàns di Pier Paolo Pasolini in Io lotto contro tutti; curato da Maura Locantore (Marsilio – 2022). Nel 2022 esce il suo primo romanzo, La notte dell’addio, pubblicato da Edizioni Nulla Die.
“Il lesbismo è molto più della sessualità. Il lesbismo apre su un’altra dimensione dell’umano” Così Wittig. In qual misura la stessa definizione di lesbismo dista dalla “differenza” dei sessi?
Si tratta di prospettive agli antipodi, in cui si riflette una delle principali linee di frattura rintracciabili all’interno del movimento di liberazione delle donne francese degli anni Settanta, quella tra esponenti del pensiero della differenza sessuale fortemente influenzate dalla psicoanalisi, da un lato, e femministe rivoluzionarie, o materialiste che dir si voglia, dall’altro: la «grande disputa tra le madri e le amazzoni», per usare un’immagine consacrata dalla stessa Wittig. Il femminismo italiano, nel corso del tempo, si è mostrato accogliente nei confronti del punto di vista delle «madri», molto meno nei confronti di quello delle «amazzoni». Potremmo misurare la distanza tra i due approcci abbozzando, in termini forzatamente schematici, un confronto tra il pensiero di Wittig e quello di una delle sue grandi antagoniste, Luce Irigaray. Irigaray inaugura la sua Etica della differenza sessuale con un’affermazione magniloquente, di intonazione heideggeriana: evoca la differenza sessuale come la cosa del nostro tempo che, pensata, ci darebbe nientemeno che la «salvezza». Questa «salvezza» andrebbe ricercata risalendo al piano della sessuazione originaria, riscrivendo l’ontologia fondamentale dell’umano in funzione di questa “evidenza” primigenia e preoccupandosi di assicurarle un’esistenza simbolica in modo che «l’uomo e la donna possano di nuovo o infine coabitare, incontrarsi e ogni tanto stare nello stesso luogo». Siamo, palesemente, in presenza di una forte idealizzazione dell’eterosessualità. All’interno di questa prospettiva, il lesbismo stenta persino a essere chiamato per nome. Irigaray parla invece di «amore tra donne»; ma ne parla come di una forma irrimediabilmente deficitaria della relazione, appesa a una sequenza scarnificata di calcoli meschini («come te»; «anch’io»; «io di più, qualche volta meno») e prigioniera di «affetti ancora infantili o che non riescono a emergere da una lotta mortale per un narcisismo sempre riportato all’infinito o nelle mani di un terzo che fa da giudice». Alluso senza essere espressamente nominato, il lesbismo resta per Irigaray il luogo dell’indifferenziazione e del grado zero dell’articolazione simbolica, da cui sarebbe possibile affrancarsi solo a patto che le donne «si amino in quanto madri e di un amore materno». Affermazioni come queste, in cui la celebrazione dell’ordine simbolico eterosessuale procede di pari passo con la censura psicoanalitica del lesbismo, per la materialista Wittig rappresentano una testimonianza eloquente di come la differenza sessuale non venga affatto «pensata», cioè strappata allo statuto metafisico e ricondotta alle sue determinanti storico-sociali, da chi la pone come condizione a-priori dell’umano e dell’accesso al simbolico. Wittig ha fama di utopista visionaria, e questa immagine corrisponde per molti aspetti al vero, ma è con grande realismo che, nei suoi testi teorici, la scrittrice ci mette in guardia dalla pretesa ideologica di “salvare” la differenza sessuale dissociandola dal suo effettivo funzionamento politico. Il fatto è che, per Wittig, la differenza sessuale si dà sempre e immancabilmente insieme alla gerarchia sociale tra uomini e donne, operando come istanza di legittimazione del rapporto di dominio. Quella tra uomini e donne, per l’autrice del Corpo lesbico, non è una differenza inscritta nella natura e nemmeno una differenza ontologica: è una differenza integralmente sociale, edificata sul rapporto di appropriazione delle seconde da parte dei primi, rapporto di «sessaggio» come lo definisce (sul calco di «servaggio») la sodale di Wittig Colette Guillaumin, che dà luogo all’esistenza di classi di sesso antagonistiche. È all’interno di questo rapporto sociale che si pone il problema di scindere l’umano in entità costitutivamente eterogenee, di marcare la differenza tra donne e uomini rinviando le dominate — e soltanto le dominate — al sesso, alle marche di genere e all’immanenza corporea: un corpo, per altro, selettivamente ridotto alla funzione procreativa e ad alcune funzioni sessuali. Ed è questa eterna ripetizione dell’insuperabilità della differenza, appunto, l’operazione più tipica e caratterizzante del pensiero straight, dell’ideologia eterosessuale. Il lesbismo, per come lo intende Wittig, mette in crisi la macchina del pensiero straight: ne rivela la violenza e, al tempo stesso, «apre su un’altra dimensione dell’umano», perché costituisce la negazione determinata del rapporto di sessaggio, la disdetta del contratto eterosessuale da parte di soggetti che rifiutano un destino programmato di subalternità, l’insostituibile punto prospettico a partire dal quale l’«essere» non ha bisogno di essere concepito come il ricettacolo originario e la garanzia perenne di una storia inemendabile di dominio. È (o dovrebbe essere) chiaro che, con Wittig, siamo lontane da una riduzione del lesbismo a semplice orientamento sessuale da integrare all’interno di un sistema di tolleranza liberale delle differenze. A essere in gioco è la possibilità stessa, preclusa alle donne all’interno del regime eterosessuale, che le vuole iper-visibili come sesso e inesistenti come agenti storico-sociali, di liberarsi del marchio inferiorizzante della differenza e diventare soggetti pienamente umani: di assicurarsi, per dir così, la dizione in prima persona degli universali che restano da inventare.
Dagli anni ’60 del Novecento il movimento femminista esplora i paradigmi ed i ruoli stereotipati delle donne, mentre l’azione dei collettivi arricchisce le meditazioni sulla differenza di genere. Il corpo delle donne è l’interprete della discussione politica?
Nel complesso, lo sforzo femminista di fare del corpo delle donne l’interprete della discussione politica rappresenta una reazione al fatto che quel corpo, all’interno del regime patriarcale, si trova per lo più a essere interpretato in funzione di interessi estranei a quelli del soggetto che lo abita. Fatta questa ovvia constatazione, occorre tuttavia tenere presente che l’affermazione della centralità del corpo può portare in direzioni molto diverse. Per esempio, si può attribuire alla pura e semplice fatticità corporea una qualche spontanea proprietà simbolica: è la via seguita da diversi essenzialismi. In alternativa, è possibile prendere coscienza del fatto che il corpo è investito di funzioni e significati che non dipendono da proprietà intrinseche della materia, ma dalla rete di rapporti sociali in cui è immerso. Il corpo lesbico prende le mosse da questa seconda premessa, sollecitandoci a pensare poeticamente cosa può diventare e cosa può fare un corpo (un corpo fisico, certo: ma anche, contestualmente, un corpo sociale, un corpo letterario, un corpo linguistico) al di fuori dei marchi che il regime eterosessuale imprime su un’anatomia per adeguarla al mito de la-Donna e de la-Differenza.
Oggidì, il corpo messo al centro del dibattito nella società contemporanea è quello muliebre. Quali forze diverse ed in contrapposizione si combattono su questo campo?
Si potrebbe fare il giro del globo e stilare un lungo elenco di gruppi sociali e politici, laici e religiosi, che, per un aspetto o per l’altro, si contendono il controllo del corpo delle donne. Ma potremmo anche rovesciare la prospettiva e chiederci quali forze sociali e politiche siano effettivamente disposte a mettere in discussione tutti i meccanismi dell’appropriazione privata e pubblica delle donne da parte degli uomini, dai volumi di lavoro domestico gratuito estratti ogni giorno nelle case alla creazione di bacini di donne da mettere sul mercato dei servizi sessuali e riproduttivi. Ne uscirebbe un quadro a dir poco desolante, ma se non altro comprenderemmo al volo per quale motivo, a meno di non volersi obbligare a un’eterna sequenza di risvegli amari, il femminismo non può fare altro che investire sulla propria autonomia.
Dal Manifesto Transfemminista del 2001 di Emy Koyama alla seconda rivoluzione sessuale, dall’autocoscienza del corpo femminile ai gender studies. Può tradurre e spiegare la parola “Queer”?
Queer (il termine significa letteralmente “storto, obliquo, eccentrico, bizzarro”; ma, a partire dall’Ottocento, assume il valore spregiativo di “frocio”, “finocchio”) è una parola che inizia a imporsi negli Stati Uniti tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, inizialmente nel contesto dell’attivismo gay finalizzato alla richiesta di assistenza per le persone malate di AIDS. Si tratta di attivisti che scelgono di riappropriarsi dell’insulto, di rivendicare la propria abiezione, entrando in polemica non solo con le maggioranze eterosessuali, ma anche con le ali riformiste dell’associazionismo LGBT, impegnate a promuovere un’immagine rispettabile e socialmente integrata dell’omosessualità. Nello stesso periodo si assiste alla consacrazione accademica del termine queer, destinata a protrarsi nel tempo, anche con un certo grado di differenziazione interna: Teresa de Lauretis, Judith Butler, Eve Kososfky Sedgwick, Leo Bersani, Lee Edelman, Micheal Warner, Paul B. Preciado, Sam Bourcier sono alcuni dei nomi da fare. Nel complesso, oggi queer viene usato con diverse accezioni: in senso lato, è il termine ombrello che si riferisce a tutte le identità comprese nell’acronimo LGBTQIA+; in senso più specifico, queer designa, all’interno dell’acronimo, la componente che si dichiara di “genere non-binario”. Non so se la richiesta di chiarimento terminologico ne contenesse implicitamente un’altra, di tipo genealogico: Wittig è un’anticipatrice del queer? È questo il suo merito storico, la ragione di una sua eventuale attualità? Credo che la risposta debba essere negativa, per ragioni insieme politiche e teoriche. Politicamente, Wittig nasce dentro al femminismo ed è dentro al movimento femminista che tenta, senza successo, di affermare il punto di vista del lesbismo materialista. Non credo possano esserci dubbi sul fatto che il femminismo sia rimasto dall’inizio alla fine, anche nei momenti di maggiore tensione polemica, il suo interlocutore privilegiato: Virgil, non è, dei suoi lavori letterari, quello che meglio testimonia di questo dialogo costante, serrato, sofferto, attraverso i personaggi di “Wittig” e di “Manastabal”. Nel 1996, molti anni dopo il naufragio dell’esperienza di Questions féministes, dovuto precisamente a una serie di divergenze sul ruolo da assegnare al lesbismo, Wittig ebbe modo di dichiarare nel corso di un’intervista: «Il lesbismo è una rottura con un sistema economico, l’eterosessualità, certamente non con il movimento femminista […] credo che non esistano donne “eterosessuali”». Probabilmente, se Wittig avesse voluto agganciare il treno in corsa del queer, avrebbe rivendicato la propria affiliazione a questa tendenza: ma non lo ha fatto, pur avendone tutto il tempo. Non lo ha fatto, credo, anche per ragioni teoriche: esiste una distanza molto pronunciata tra le premesse materialiste da cui prende le mosse Wittig e quelle, idealiste, entro cui si muovono il queer e il transfemminismo. Devo a Colette Guillaumin un’immagine che si presta bene a riassumere la differenza tra le due prospettive: se al posto della classificazione dicotomica uomo/donna prendiamo quella giorno/notte, verosimilmente la critica queer e quella transfemminista introdurranno i concetti di alba e di crepuscolo per relativizzare l’opposizione. Wittig, invece, rimetterà in discussione l’idea stessa di giorno e di notte, andando a interrogare il fenomeno della luce.
In una fase di riscoperta della produzione teorico-politica di Wittig, qual è il suo lascito?
È ancora presto per tracciare un bilancio. Come ha spiegato Simonetta Spinelli a suo tempo, Wittig è un’intermittenza: appare, scompare e di nuovo riaffiora quando si esprime un bisogno di radicalità. Occorre anche inventare modi di lettura che ci consentano di comporre, senza smembrarli in un citazionismo spicciolo, gli aspetti multiformi della sua eredità: teorico-politica certo, ma anche, inscindibilmente, letteraria. Credo valga ancora oggi ciò che una lettrice qualificata di Wittig come Christine Delphy ha scritto quarant’anni fa: «Molte scrittrici hanno fatto sapere (o hanno lasciato che si sapesse) di essere “omosessuali”. Ma Wittig è stata la prima — e, ad oggi, l’ultima — ad avere collocato il lesbismo al centro della sua politica, e la sua politica al centro di lavoro di scrittura».
Deborah Ardilli ha conseguito un dottorato di ricerca in filosofia politica presso l’Università di Trieste. È traduttrice e studiosa di teoria politica e storia dei movimenti femministi. Ha collaborato con il “Laboratorio anni Settanta” dell’Istituto Storico di Modena per una ricerca sulla storia locale di Lotta Femminista. Con VandA edizioni ha pubblicato Manifesti femministi (2018) e, con Stefania Arcara, Valerie Solanas – Trilogia SCUM. Ha tradotto Elogio dei corpi delle donne (2021), Autostima (2021), La Nazi connection (2022) e Oltre i 60 (2022) di Gloria Steinem. Ha tradotto e curato l’edizione italiana di Christine Delphy, Il nemico prncipale 1. Economia politica del patriarcato. Sempre di Christine Delphy ha tradotto e curato, per ombre corte, Per una teoria generale dello sfruttamento. Forme contemporanee di estorsione del lavoro. Insieme a Stefania Arcara gestisce il blog femminista materialista Manastabal, ˂www.manstabalblog.wordpress.com˃.
Dottoressa Pace, quali sono stati i ruoli fondamentali ricoperti nella Resistenza italiana dalla ortese Maria Giulia Cardini?
Tutto comincia nel 1940 con l’ iscrizione al Politecnico di Torino, città alla quale rimane particolarmente legata e nella quale nascono le amicizie e gli affetti più cari, ed è proprio nel capoluogo piemontese che prendono forma l’ impegno civile e la militanza politica che restano alla base delle sue scelte di vita. Di famiglia antifascista,dopo il settembre del ’43 decide, come anche la sorella più piccola Adriana, di assumere un ruolo attivo nella Resistenza. Comincia svolgendo funzioni di collegamento tra il Comando militare di Torino e il CLN di Novara e Omegna, e passa poi al Servizio di collegamento con l’organizzazione Franchi allo scopo di costituire formazioni armate in Val d’Aosta e nel Canavese. Arrestata a Torino nel maggio del ’44, per appartenenza al CLN, costituzione di banda di ribelli, insubordinazione armata contro i poteri dello Stato, propaganda antinazionale e apologia di propaganda liberale, viene deferita al Tribunale speciale (e consegnata ai tedeschi il 18 luglio). Condannata, viene però liberata per avvenuto scambio di prigionieri con la figlia del console di Germania a Torino. Dopo l’ esperienza del carcere riprende l’attività di collegamento tra il CLN di Milano e le valli ossolane, ma in seguito a nuovo mandato di cattura, entra nella Divisione alpina Beltrami, con funzioni di intendenza. Dal febbraio del ’45 e fino alla smobilitazione nel maggio dello stesso anno, sarà al Comando centrale del SIMNI (Servizio Informazioni Militari Nord Italia), con funzione di capocellula nella Chrysler Mission americana.
Ebbene, militante dell’Organizzazione Franchi di Edgardo Sogno, combattente nelle Divisioni Beltrami e Di Dio in Val d’Ossola, capocellula dell’intelligence partigiana (Simni) nell’ambito della Missione Chrysler. In quali altre circostanze emersero le capacità organizzative di Maria Giulia Cardini?
L’intera vita della Cardini è la dimostrazione costante delle sue grandissime capacità organizzative. Dopo la Resistenza e la laurea in Fisica aTorino e inizia ad insegnare matematica e fisica, carriera che seguirà (spostandosi tra Biella, Omegna, Valli del canavese, hinterland milanese e poi Milano) per oltre 40 anni. Nell’immediato dopoguerra partecipa al fermento culturale e politico che caratterizza il capoluogo piemontese: è fondatore e condirettore della rivista di letteratura, musica e arti figurative Agorà, milita attivamente (come del resto tutta la famiglia, padre, sorella, marito) nel Partito Liberale ove ha modo di conoscere e frequentare personalità come Croce, Einaudi, e Giovanni Malagodi. Nel 1962 entra nel Soroptimist Club di Novara), partecipando sempre attivamente alla vita associativa, ricoprendo vari incarichi, tra cui quello di Delegata. Nel 2006 è Socia fondatrice del club Alto Novarese. Sempre nei primi anni Sessanta è Vicesindaco nel Comune di Orta.
La vicenda di Maria Giulia Cardini è stata lungamente sottovalutata o ignorata. Quali sono le ragioni del silenzio della storiografia?
Come già evidenziavo nel volume Partigiane liberali (Rubbettino 2020) nella valutazione dell’apporto alla Resistenza, per troppo tempo taciuto, delle donne appartenenti al Partito liberale, si può dire che per loro è valsa in primo luogo l’autoesclusione, determinata dal pudore di parlare di quegli avvenimenti, che si consolidò, all’indomani del 25 aprile, tra le principali protagoniste di questa storia. All’autoesclusione dalla lotta partigiana, nonostante la comunione ideale di intenti, si è aggiunta spesso poi l’idea preconcetta dell’incompatibilità delle donne liberali con la causa comune delle donne resistenti, che le ha relegate nel ruolo de «le altre», sia a causa dell’appartenenza sociale che dell’appartenenza politica. Insomma, la partecipazione delle donne liberali alla guerra di liberazione è stata trascurata in primo luogo perché appartenenti al ceto borghese, in secondo luogo perché non seguivano pedissequamente fedeltà ideologiche, tanto meno quelle socialiste e comuniste, allora dotate di un fascino più insistente dopo la fine della dittatura. Questa trascuratezza però è imputabile non solo alla pubblicistica ideologica avversa ma anche alla letteratura scientifica che ne è stata variamente condizionata. Un’ulteriore causa va ricercata, infine, nella storia e nella memoria dello stesso Partito liberale, che non ha mai riconosciuto pienamente il contributo determinante di molte figure femminili.
Qual è l’esito della strada percorsa dalla partigiana Cardini? Cosa le accade nella generale crisi delle vecchie élites davanti all’avanzata dei partiti di massa?
Nei complessi anni del dopoguerra il partito, poi, nelle sue divisioni e incertezze, cominciò a dimenticare i protagonisti della Resistenza, a lasciar andare molti tra i suoi figli che quella fase avevano vissuto in prima persona, e avrebbero dovuto «traghettarla» nell’identità liberale nell’epoca della rinnovata democrazia. Cosa che al contrario seppero fare i grandi partiti di massa, i quali si apprestavano a prendere quasi tutta per sé la scena politica. “E tra quei “figli dispersi della rivoluzione” vi erano anche le sue figlie, destinate a vivere un lungo oblio” e la stessa Maria Giulia Cardini.
Il titolo del volume è un volano di riflessioni, oggi più che mai. Cosa l’ha indotta ad elaborarlo?
Che cos’è un liberale? Con queste parole Dina Clevena, partigiana comunista, cercava di inquadrare, avendo davanti una stupita Maria Giulia Cardini, quale fosse il ruolo che il Partito liberale ricopriva nella lotta di liberazione nazionale. Spingendosi più a fondo, sempre la staffetta comunista, chiese “insomma, che canzone avete?”. La risposta della Cardini confermò tutte le sue perplessità al riguardo, seccamente, infatti, ella sentenziò: “i liberali non hanno canzoni!”. Tutta l’elaborazione del volume si è basata su questa frase, che fin da subito ho scelto come titolo di un volume che si poneva l’arduo compito di ricostruire la parabola resistenziale di Maria Giulia cardini. Questa considerazione, inoltre mi ha spinta, inevitabilmente, a una riflessione sul rapporto tra la cultura liberale italiana, il Partito liberale e l’eredità della Resistenza. L’allontanamento dalla fase della lotta di liberazione di molti suoi esponenti, come sopra detto, che quella fase avevano vissuto in prima persona, influirà in modo netto sulla costruzione della memoria collettiva. Al contrario, invece, i grandi partiti di massa, i quali si apprestavano a dominare la scena politica e «si riconoscevano tutti in una loro canzone», impararono presto a usare estensivamente una retorica ideologica nella quale il riferimento, col tempo sempre più «mitologico», alla Resistenza come momento fondativo avrebbe assunto un’importanza centrale.
Rossella Pace, Assegnista di Ricerca presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, PhD in Storia dell’Europa presso l’Università “Sapienza” di Roma. Segretario del Comitato nazionale per le celebrazioni del centenario della morte di Giacomo Matteotti. Si è occupata di Storia del liberalismo, di Resistenza, di storia sociale e relazioni diplomatiche. È autrice del volume Una vita tranquilla. La Resistenza liberale nelle memorie di Cristina Casana (Rubbettino 2018), Partigiane liberali. Organizzazione, cultura, guerra e azione civile (Rubbettino, 2020) e di vari saggi e articoli su riviste specialistiche. Ha curato inoltre i volumi La fatalità della guerra e la volontà di vincerla. Classe dirigente liberale, istituzioni e opinione pubblica (2019) e Diplomazia multilaterale e interesse nazionale. Dal Congresso di Vienna (1815) all’atto finale di Helsinki (1975) e oltre (2016).
Un capo d’abbigliamento, un accessorio, un paio di scarpe…Quali ragioni trova il connubio, non facilmente intuibile, tra moda e liberazione animale? Raramente ci si ricorda che la maggior parte dei nostri abiti proviene dagli animali: la lana, il cuoio, la seta, le pellicce. Ognuno di questi “materiali” proviene da diverse forme di sfruttamento degli animali, per la produzione di enormi quantitativi di merce sul mercato. Ciò comporta che anche settori apparentemente non violenti, come la tosatura della lana, siano invece divenuti molto crudeli per gli animali, come nel caso della pratica del mulesing delle pecore da lana, ora in molti paesi bandita, ma purtroppo in altri ancora praticata. Altri settori, come la produzione di cuoio si basano sullo sterminio di massa quotidiano di animali come vitelli, agnelli, canguri, coccodrilli etc. La pelliccia, benché non stia oggi al centro delle tendenze della moda, è ancora molto presente nei colli dei giubbotti, nelle bordature etc., anche se meno come capo intero. Se in Europa l’allevamento di animali da pelliccia è vietato quasi ovunque, le aziende possono facilmente rifornirsi dove non lo è. Nella moda, non bisogna dimenticare tuttavia, più che in qualunque altro settore, gli animali sono anche una fonte di ispirazione e al tempo stesso sono accessori per la messa in scena dello stile. Nella moda, quindi, rappresentazione e sfruttamento degli animali sono correlati in modo sui generis. Gli animali hanno sempre fatto parte tanto della produzione di materiale di abbigliamento (pelle, pellicce, lana, piume, penne, seta) quanto dell’immaginario della moda come fonte di fascinazione e di imitazione, nella pubblicità, nei redazionali e nelle tendenze di stile. C’è quindi una sorta di dissonanza cognitiva: da un lato amiamo e ci ispiriamo agli animali, dall’altro non vogliamo sapere quanta crudeltà e dolore infliggiamo loro. Io mi auguro che in un futuro non lontano, i materiali per il nostro vestire non verranno più dagli animali. Nel mio libro ho dedicato un capitolo ai materiali di nuova generazione, ricercati anche dai marchi del lusso, e non solo da designer indipendenti e sensibili.
Soventemente, si reputa che la Moda sia una frivolezza, un passatempo per sfaccendati ed oziosi, perdendo di vista che rappresenta milioni di dollari e innumerevoli posti di lavoro. Quali sono le ragioni per le quali gli abiti e la loro storia siano derubricati a vuota insulsaggine? Fino a un recente passato, come eredità dei secoli diciannovesimo e ventesimo, la moda era considerata il rifugio del disimpegno, del “femminile”, del superfluo. In realtà, non era così: la moda ha sempre avuto un potere di sovversione e di cambiamento, ma lo stereotipo del frivolo ha avuto il sopravvento su altre interpretazioni più veritiere. Solo dagli anni Novanta del Novecento, infatti, la moda diventa un soggetto di studio autonomo, non ancillare rispetto ad altre discipline. La frivolezza della moda ne decretava anche l’inconsistenza, in un complesso di idee, non di rado contraddittorie, per il peso crescente di un’industria sempre più articolata e influente e in una società definita dai consumi di massa. Potremmo dire che la frivolezza, con tutto ciò che comporta, è stata ciò che la neonata teoria della moda ha messo in discussione, analizzando le relazioni e le connessioni tra stile e culture, nel tempo e nelle diverse latitudini. Per molto tempo decostruire i concetti di frivolezza e superficialità è stata la priorità nell’agenda delle studiose e degli studiosi di moda.
Posto che l’antispecismo sia politico e non osservabile da una prospettiva astrattamente morale, la questione animale è l’aspetto indispensabile di ogni presupposto di trasformazione dell’esistente? Penso che tutto sia collegato: lo sfruttamento su scala industriale degli animali per l’industria alimentare, per l’industria cosmetica, per l’industria della moda-abbigliamento ha a che fare non solo con gli animali che sono direttamente coinvolti, ma anche con i problemi più vasti della crisi climatica e della crisi ecologica. Ma lo sfruttamento verso chi non si può difendere, a sua volta, riguarda gli animali umani e gli animali non umani ugualmente. Per questo penso che battersi per la liberazione animale sia una forma di lotta più generale per l’uguaglianza dei viventi in qualsiasi posizione esistenziale si trovino.
I concetti che esprime tangono il “postumanismo”, il quale è, altresì, un ampio ragionamento sul rapporto tra techne e realtà. Oggidì, tutto si fonda sull’efficacia e l’efficienza. Un mondo della Moda post-antropocentrico potrebbe reggersi su creatività e sentimenti? Non saprei rispondere a questa domanda. La filosofia postumana intende mettere in discussione la prevaricazione dell’uomo sul resto del creato e decostruire certe forme di opposizioni binarie che si ritiene ne siano alla base; più in particolare si vuole decentrare un certo di tipo di umanità, e cioè il maschio bianco e occidentale. Questo ha avuto molto senso fino a un recente passato, in cui si davano per scontate molte realtà costruite su quel presupposto, essenzializzandole. Oggi la critica è ancora più inclusiva. Movimenti come Extinction Rebels dimostrano che la revisione abbraccia un po’ tutto. Non so se questo voglia dire basarsi su creatività e sentimento, a scapito dell’efficacia, ma ne dubito. Più probabilmente si aprono nuove direzioni in difesa dell’ecosistema.
Lei pare mirare ad un’idea di sostenibilità più estesa. Quanto incide la consapevolezza su scelte responsabili? Se fossimo animali razionali, direi moltissimo, ma non lo siamo che in minima parte. Tuttavia, la consapevolezza è la condizione senza la quale difficilmente si può sperare in un cambiamento. Dunque, ben venga, e il mio libro vuole essere un contributo in questa direzione, spero.
Simona Segre-Reinach, antropologa culturale, è docente di Fashion Studies nell’Università di Bologna. Ha pubblicato manuali di teoria della moda e della curatela di moda, tra cui: La moda. Un’introduzione (Laterza 2010), Un mondo di mode (Laterza 2011), Exhibit! La moda esposta. Lo spazio della mostra e lo spazio della marca (Bruno Mondadori-Pearson 2017); monografie, Biki. Visioni francesi per una moda italiana (Rizzoli 2019); ricerche internazionali, Fashion in Multiple Chinas. Chinese styles in the Transglobal Landscape (Tauris-Bloomsbury 2018). Ha curato e co-curato le mostre: “80s-90s Facing Beauties. Italian Fashion and Japanese Fashion at a Glance” (Rimini, Museo della città 2013); “Jungle. L’immaginario animale nella moda” (Torino, Venaria Reale 2017); “Rodrigo Pais. Sguardi sulla moda. Fotografie dagli anni Cinquanta” (Biblioteca Universitaria di Bologna 2022). Dirige la rivista scientifica ZoneModa Journal.