Arte, pratica di resistenza

Dialoghi tra una sociologa e un’artista

La storia ci fornisce molti esempi di simbolismo artistico, utilizzato per conferire
informazioni, raccontare storie e rappresentare la realtà.
Ebbene, le differenze culturali potrebbero disturbare la percezione del messaggio contenuto nell’immagine, limitando la sua efficacia o falsando ed ostacolando la comunicazione?

La domanda che lei pone mette un po’ il dito nella piaga. Ciò che sostengo nel libro è l’importanza di distinguere l’opera d’arte dalle immagini che veicolano messaggi, con una funzione più illustrativa che creativa. Ci tengo a chiarire che questa mia posizione non è a sostegno dell’art pour l’art, di un’arte intimista, autoreferenziale e disimpegnata, tutt’altro! Ma ritengo che la questione sia proprio nel linguaggio, e quello dell’arte ha le sue specificità. Il suo funzionamento è differente da quello del linguaggio articolato, governato evidentemente dal rapporto strutturale tra significato e significante, e rientra invece piuttosto nella “nebulosità prelinguistica”, per dirla con Saussure, che è o dovrebbe essere il territorio dell’immagine. Essa sfugge ai significati chiari (per i quali esiste quella parola cui si dà il compito di definire) perché si regge invece su un’ambiguità, che è ciò che consente per altro al fruitore di completare il senso dell’opera, attivando un proprio pensiero, in base alla sua singolare esperienza. D’altra parte è vero che l’arte, che in Occidente è indissolubilmente legata all’avvento e allo sviluppo del Cristianesimo, ha raccontato le storie di quella dottrina, tuttavia ciò cui viene dato valore è come queste storie sono state raccontate da Michelangelo, Pontormo, Caravaggio e così via.
Detto questo, rispetto a quello che mi chiede, c’è sempre una comprensione anche culturalmente condizionata perché, non solo le lingue codificate, ma anche il patrimonio visivo ha un quid di geograficamente e storicamente determinato, nonostante le immagini siano più universali, e nonostante i mezzi di comunicazione di massa abbiano determinato una mescolanza pervasiva delle immagini a livello planetario. Sulla parola comunicazione naturalmente si apre un mondo: a me piace e non vorrei perderla, perché implica l’esistenza di almeno due soggetti e corrisponde all’idea che ho dell’arte come una pratica tutt’altro che solipsistica. Ma, per quanto mi riguarda, è fondamentale intenderla non come la facoltà di veicolare messaggi, appunto, informazioni o “verità”, che partono da un soggetto per giungere ad un altro, ma come un’attitudine a stabilire relazioni profonde non codificate, né codificabili, tra umani, che prevedono anche la possibilità di influenzarsi reciprocamente fuori dal piano dell’utile e dell’ordine sociale. Per me a questo si lega il valore, intrinsecamente sociale e politico, dell’arte come affermo in dialogo con la sociologa Anna Simone.
La dimensione etico-estetica, la sua “performatività” nello scambio con il sociale, diviene il gap con il quale il “sensorio” si confronta. In qual misura con l’affacciarsi del binomio produttivo capitale/linguaggio muta l’uso dell’immagine?
Nella misura in cui, come dicevo, le immagini vengono prodotte e usate in sostituzione del linguaggio articolato la loro disponibilità ad essere messe a sistema, ad essere sfruttate, è totale. Ma neanche conservare una natura ibrida e sfuggente che – ribadisco – è per me la caratteristica più autentica dell’immagine artistica, garantisce uno spazio di protezione, perché come sappiamo il capitale travolge ogni cosa, onnivoro com’è. Il suo potere di sussumere e mettere a valore tutto ciò che nasce anche per contrastarlo, rendendolo non solo inoffensivo ma utile alla sopravvivenza del capitale stesso, è una realtà. È noto come tra gli anni Sessanta e Settanta gli artisti si siano mossi verso il superamento dell’oggetto in favore dell’ambiente e del processo includendo la performance, l’evento, materiali instabili e deperibili, implicando quella smaterializzazione che avrebbe dovuto resistere anche alla mercificazione, oltre a dare valore all’esperienza del fruitore e alla sua partecipazione. Ebbene, è chiaro che tutte le cose appena citate, comprese le critiche alla società e al sistema, sono state messe regolarmente a valore, andando a rappresentare la nuova frontiera del marketing. Quindi, che vogliamo fare? Non mi pare esista un antidoto ma potrebbe essere d’aiuto, nell’approccio all’arte, provare a tenersi stretta la parte sensibile, come opportunità di un’attività libera e singolare di produzione di senso, non solo dell’artista ma anche del fruitore, e mettere forse da parte l’etica la cui natura, normativa e omologante, è totalmente estranea all’arte, che va intesa come stimolo a porsi domande (senza prescrivere “giuste” risposte) ed elaborare pensieri.
Moltissimi amano le infografiche: esse racchiudono informazioni in una forma
simpatica, piacevole, non impegnativa. Quanto contribuisce alla crisi del vedere la
semplificazione?

È infinita la lista di artisti che si sono espressi sulla differenza guardare/vedere e mentre guardare è la funzione selettiva dell’occhio, vedere implica un’attività mentale che, passando per l’occhio, va oltre e si muove verso ciò che non è visibile. La dinamica del vedere è nel rapporto tra visibile e invisibile, che è ciò di cui si occupa l’arte e non so se sia in crisi, ma di sicuro non ha a che fare con la semplificazione, per ovvi motivi. La facoltà di vedere, passando per la percezione, si trova oltre la percezione stessa e implica una creatività anche da parte dello spettatore. Voglio portare un esempio concreto per non rischiare che il linguaggio diventi troppo astratto: recentemente ho realizzato un’opera che ho intitolato “Speculare”, termine che comprende la qualità dello specchio, le sue caratteristiche ottiche, la superficie riflettente, la simmetria e il rovesciamento dell’immagine riflessa, ma che significa anche esplorare, cercare e indagare col pensiero. L’opera che si trova a ridosso di un bosco nel parco promosso dalla scultrice Lucilla Catania, Sculture in Campo, consiste in quattordici vasche dalla forma organica piene d’acqua colorata artificialmente. Bene, le superfici liquide fanno dell’opera uno strumento della visione che porta lo sguardo al di là dell’oggetto scultoreo, includendo il paesaggio che, visto attraverso l’opera, viene trasformato dagli spostamenti dell’osservatore, dalla luce, dall’alterazione dei colori dell’acqua, dal mutare delle stagioni, dal passaggio delle nuvole e dall’occasionale vibrazione della superficie causata dal vento o dalla caduta di una foglia. La scultura stessa è trasformata dall’intervento della natura, dal processo di crescita e stratificazione favorito dalla presenza dell’acqua, dal proliferare di organismi vegetali e non, licheni e quant’altro. Insomma tutto contribuisce a rendere la scultura, la riflessione e la visione, instabili, cangianti, in continuo divenire. Questo è il punto: dare agli occhi qualcosa che interferisca con la loro funzionalità oggettiva, clinica, per aumentare il vedere e le sue possibilità. More Than Meets The Eye recita l’opera di Nannucci sulla facciata del Maxxi, e l’incontro con l’arte lo prevede sempre.
In un tempo in cui tutto viene mercificato, in cui tutto tende a essere dematerializzato attraverso l’intelligenza artificiale, che ruolo può avere l’arte?
Forse ribalterei la domanda e mi chiederei che ruolo può avere l’intelligenza artificiale rispetto all’arte. Considerando l’uso che se ne fa nel campo visivo, mi sono trovata a pensare che, come artisti, dovremmo gioire della sua introduzione, perché rende palese che non tutti i prodotti visivi sono frutto di un’attività immaginativa, e che si può generare un oggetto visivo senza passare per l’immaginazione. È interessante, perché allora forse non dovremmo chiamare immagine la totalità del visivo, neanche rispetto alla produzione umana. L’I.A. è una tecnologia che di per sé non solo non può evidentemente prendere il posto dell’arte, ma quello che sto cercando di dire è che ci permette al contrario di meglio definire cos’è l’arte. L’immagine in quanto prodotto dell’immaginazione è un fatto interiore ed è una forma di intelligenza solo umana, che prevede un vissuto, una relazione col mondo di cui l’immagine costituisce la memoria, ovvero la sua elaborazione e trasformazione. L’immaginazione è processo invisibile, l’immagine va considerata come il risultato finale, come se ci trovassimo di fronte a una formula che contiene e sintetizza tutta una serie di cose che non vediamo. Tutto ciò che ignoriamo, da spettatori, è il processo attraverso cui l’artista è giunto a quella formula finale, ma è proprio ciò che ignoriamo, quello spazio sconosciuto, che ci permette l’esplorazione e la produzione di un senso. Questo spessore, questa profondità, continua ad essere solo dell’arte.
Lei rimette al centro l’atto creativo inteso sia come pratica di resistenza, sia come pratica della differenza e della relazione.
L’arte come poetica dell’esperienza umana?

Esattamente. L’arte ci racconta di un altro essere umano e di un’altra antropologia rispetto a quella che fa coincidere l’umano con la ragione strumentale, alla base della quale c’è il primato dell’utile e degli interessi individuali, che poi si traducono nel profilo dell’homo oeconomicus e in un materialismo esasperato, il cui esito non può che essere la disumanizzazione. La questione a monte è culturale: se la natura umana è la razionalità (dall’origine del logos, passando per l’Illuminismo, fino ad arrivare a noi), una volta applicata a ogni ambito della vita e dell’organizzazione sociale, non c’è nulla da stupirsi rispetto a quanto accade: la distruttività del neoliberismo, l’estrazione devastante delle risorse ambientali, la mercificazione di tutto – persone comprese -, gli assassinii di massa nelle guerre che, come sappiamo, hanno sempre un fondamento economico. Se l’antropologia è questa non dobbiamo stupirci, perché è profondamente antisociale. Neanche sul linguaggio possiamo contare come principio di socialità, essendo esso stesso sempre stato strumento privilegiato nella creazione di ordini, gerarchie e rapporti di potere.
Possiamo dire che il linguaggio poetico – che indipendentemente dalla poesia appartiene a tutte le arti – è altro. Io penso sia una pratica della differenza, una pratica di resistenza rispetto a quanto appena detto, e una persistenza dell’umano, evidentemente non specifiche dell’artista, perché appartenenti a tutti coloro che a quella poesia prestano attenzione, riconoscendola e facendola propria. Le pratiche artistiche, profondamente politiche nella loro essenza, possono essere considerate la traccia trasversale nel tempo di un’altra modalità di pensiero, linguaggio, e un’ipotesi altra di visione dell’essere umano. Un umano che esprime il proprio modo di essere al mondo e la propria intelligenza attraverso un linguaggio non appreso, ma creato. All’interno di questa libertà dal linguaggio imparato, dalle cose note, dalla percezione della realtà così come è, dalla “normale” scissione tra mente e corpo, c’è lo spazio di ingresso per l’altro e per la sua sensibilità, per questo penso che nell’arte c’è autentica socialità.
L’arte è anche strumento comunicativo del marketing.
Quale via percorrere affinché funga da balsamo curativo di sé e degli altri?

Il marketing viene applicato a tutto e come dicevamo non riguarda solo gli oggetti, ma anche i processi, le qualità di questi processi, il linguaggio, le narrazioni e le stesse relazioni sociali. Le immagini forse conservano un potere, nonostante il consumo smisurato che se ne fa e nonostante il loro sfruttamento estremo, per la capacità che hanno di attrarre le persone nel loro proprio spazio interiore e mentale.
Io non penso che l’arte curi l’individuo, sia ben chiaro, ma al tempo stesso – se non la si banalizza prendendola solo come piacere consolatorio – può essere un antidoto rispetto ai veleni in circolo nella società e nella cultura dominante. Condivido totalmente le parole di Gerhard Richter che “l’arte è la forma più alta della speranza”, e se non ci fosse il mondo sarebbe un luogo disperato e disperante.

Veronica Montanino

Artista visiva che utilizza diversi mezzi espressivi, dalla pittura alle installazioni prodotte con materiali e tecniche eterogenee. I suoi lavori site specific prendono forma in un profondo dialogo con l’ambiente e l’architettura. Oltre all’attività espositiva in musei, gallerie, fondazioni e spazi dedicati, realizza interventi di Arte pubblica e rigenerazione urbana, partecipando a progetti sia istituzionali che indipendenti.
Nel 2010 per il Caffé di Palazzo Collicola Arti Visive a Spoleto interviene su mobili, soffitto e pareti perimetrali, creando una stanza dal titolo “Camera delle meraviglie”. Partecipa alla 54° Esposizione internazionale d’Arte di Venezia, presso il Padiglione Italia all’Arsenale (2011). Presso la Casa dell’Architettura di Roma, ex Acquario Romano realizza nel 2013 un intervento permanente per l’ingresso. Al MAAM, Museo dell’Altro e dell’Altrove, tra il 2012 e il 2014, dà vita allo spazio della ludoteca e ad altre due grandi opere ambientali. Nel 2015 realizza, in collaborazione con un architetto paesaggista, un giardino galleggiante per Regent’s Park di Londra. Nel 2016 il MARCA, Museo delle Arti di Catanzaro le dedica una grande mostra personale, e alcuni anni dopo la invita a firmare un intervento ambientale permanente per la sala panoramica. Nel 2016 il Policlinico Gemelli di Roma le commissiona un lavoro site specific per la sala di diagnostica per immagini. Tra il 2018 e il 19 partecipa con diversi progetti alle attività del MACRO, Museo di arte contemporanea di Roma. Dal 2019 al 2022 insegna presso l’Accademia di Belle Arti di Catanzaro. Nel 2020-21 il Casino Nobile dei Musei di Villa Torlonia ospita la sua personale “Rami”, una mostra che interagisce con tutto lo spazio creando un dialogo serrato tra antico e contemporaneo.

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