Adiós Caracas

Il tema della migrazione è dibattuto in toni, soventemente, accesi.
“Adiós Caracas” ci conduce in Venezuela. Oltre le urgenze materiali o politiche, ravvede altre motivazioni per dirigersi verso le terre dell’”altrove”?

Mi permetta di tradurre il suo riferimento de le “terre dell’altrove” in quello che nel mio libro definisco la El Dorado. Si tratta ovviamente di un mito che deriva dalle storie dei Conquistadores spagnoli e dagli esploratori europei approdati nelle terre della Colombia, del nord del Brasile, della Guyana e ovviamente del Venezuela… Pensi che nel film «Pane, amore e…» diretto da Dino Risi, il personaggio del maresciallo Esposito, interpretato da Vittorio De Sica, commenta la partenza nel Venezuela del fidanzato deluso – Nicolino – della splendida Donna Sofia (Loren), rappresentandolo come un paese “tropicale, con belve feroci, serpenti velenosi, ragni grossi così, malaria, caldo umido…”. Siamo nel 1955. Se penso agli emigranti, a partire dai miei genitori protagonisti della prima parte del mio libro, è indubbio che l’”altrove” abbia rappresentato per essi una possibilità per esplorare nuove geografie della propria mente, direi di nuovi orizzonti rispetto a quelli che vedevano in una Italia del dopoguerra di certo in forte rilancio ma intrisa di una cultura forse molto perbenista, cattolica e in fondo provinciale. Dico questo in modo provocatorio escludendo le ovvie e ben più pesanti urgenze materiali e politiche che hanno spostato masse bibliche di persone dall’Italia nel mondo. Il Venezuela, credo, rappresentava per molti giovani dell’epoca anche una opzione per affrancarsi da un canone paternalistico e protettivo ritenuto troppo stretto per dei giovani che avevano dovuto vivere la propria infanzia e adolescenza confinati e al riparo dalle bombe e dall’occupazione nazifascista.

Tra il 1957 e il 1958 cade il regime autoritario del “caudillo” Marcos Pérez Jiménez.
Quanto muta Caracas e quale ruolo si ritagliano gli italiani?

Credo sia utile fare una premessa di carattere storico: fino alla seconda metà del XX secolo, il Venezuela non rappresentava una meta dell’emigrazione italiana, diversamente, ad esempio, dall’Argentina. Fu in concomitanza con la dittatura di Marcos Pérez Jiménez dal 1952 al 1958 che il Venezuela conobbe un’importante crescita economica, tanto che il PIL pro-capite raggiunse i primi posti al mondo. È in questa finestra temporale che arriva la terza ondata di emigranti italiani. Ho letto in una ricerca del 2010 di Giuseppe D’Angelo, dell’Università di Salerno, che tra il 1949 e il 1960 giunsero nel paese circa 220 mila italiani, l’equivalente del 30-35% per cento della popolazione straniera presente, insieme a spagnoli e portoghesi nella gran parte. Di questi nostri emigranti pochi furono coloro che inseguirono l’oro nero nei pressi del Lago de Maracaibo, ancor oggi uno dei giacimenti di petrolio più importanti al mondo. L’apporto italiano prevalente fu in altri comparti produttivi. E qui troviamo la loro presenza come imprenditori nel campo dell’edilizia e delle infrastrutture, delle imprese commerciali soprattutto a carattere familiare, nel campo della ristorazione, alberghi, calzature e finanche nell’industria radiotelevisiva… In quegli anni era forte il desiderio di integrazione e di valorizzazione della cultura italiana. Un ruolo importante lo ebbe la “Casa d’Italia” di Caracas, punto di incontro culturale ed economico tra i due paesi, oltre alla nascita di diverse scuole per immigranti quale la Scuola Agostino Codazzi – cartografo bolognese che nell’800 esplorò vaste aree del Venezuela – nella quale ho studiato fino alla maturità. Detto questo, mi consenta di fare una notazione: non credo di sbagliare di molto se affermo che una parte significativa di italiani appoggiava la figura del “caudillo” Pérez Jiménez, di certo associabile, con tutte le differenze del caso, al nostro Benito Mussolini. I nostalgici del Ventennio erano presenti anche in Venezuela. Tant’è che il 23 gennaio 1958 il “sogno venezuelano” dell’emigrante italiano si infrange all’indomani della sollevazione popolare che porta alla deposizione e fuga rocambolesca in Spagna di Pérez Jiménez, che lascia un paese con una crisi economica rilevante e un’eredità politica tutta da ricostruire dalle fondamenta. Egli di fatto aveva a lungo governato attuando una politica duramente repressiva che colpiva la libertà d’espressione politica e di stampa per privilegiare ogni attenzione ad una modernizzazione tumultuosa della capitale Caracas grazie ai proventi della vendita del petrolio. Tutto ciò, purtroppo, avvenne favorendo il suo proprio arricchimento e quello dei suoi collaboratori. Quello della corruzione familistica è un mantra che non abbandonerà mai più il Venezuela. È così che molti immigrati italiani sostenitori del dittatore faranno ritorno in Italia, anche per aver subito ritorsioni nel corso del colpo di stato, mentre la gran parte si adatterà al nuovo contesto politico-sociale inaugurato dal socialdemocratico Rómulo Betancourt che, dal 1959 al 1964 sarà il presidente di un Venezuela in crisi. Sarà questo un periodo di conflitti politici e di tentativi di ridefinire i piani industriali lasciati da Pérez Jiménez, dove si tenterà anche di varare una riforma agraria che non decollerà mai. Pensi che il venezuela è tre volte abbondanti l’Italia e all’epoca la popolazione si attestava a circa sei milioni di abitanti! Insomma, i nostri italiani di allora dovranno “stringere la cinghia” e consolidare le proprie rendite di posizione in attesa che gli anni Settanta arrivassero con la loro bolla di benessere per la classe media, altra età dell’oro per un paese straricco di greggio in un mondo, quello di allora, in piena crisi energetica.

La migrazione è un fenomeno antropologico e sociale, per lei parte di una vicenda individuale. Qual è la sua posizione rispetto al tema dell’attribuzione della cittadinanza?
La questione è complessa e dipende dalle leggi e dalle normative del paese in cui ci si trova. In Venezuela, ad esempio, la Costituzione del 1961 prevedeva lo ius soli, secondo il quale ogni persona nata nel territorio del paese era considerata cittadina venezuelana. Io ho quindi acquisito la doppia cittadinanza ed è chiaro che questa prerogativa non solo ha avuto per me negli anni delle conseguenze di tipo giuridico e di status ma, forse soprattutto, di tipo psicologico. La domanda che mi ponevo in gioventù, ma direi fino a pochi anni fa era: quali sono le mie radici, quale la mia “identità”? Per quanto riguarda me, la mia microstoria, ho assorbito, sul piano dei diritti-doveri, la cittadinanza italiana, mentre sul piano meramente psicologico ho vissuto una sorta di dualità tra le due culture che si è riflettuta in certi miei comportamenti, nel linguaggio – sono bilingue – e finanche nella dimensione affettiva. In un certo senso, sento di avere radici “aeree” come la Tillandsia, una pianta potenzialmente mobile perché non radicata in profondità in un terreno.  Diversamente, se penso a un migrante che lascia oggi il proprio paese per le ragioni più varie – le più drammatiche in un mondo con una povertà diffusa e guerre permanenti – vedo un essere umano non privilegiato come me che deve affrontare i travagli e i pericoli di una scelta che assume il valore della sopravvivenza e della speranza per un luogo d’arrivo e di accoglienza. Per Lui e per Lei, la richiesta di cittadinanza può rappresentare una forma di riconoscimento e accettazione, di stabilità e sicurezza, di diritti prima negati, di un nuovo legame e sviluppo di radici da piantare in una nuova terra, anche se non è la El Dorado che hanno conosciuto i nostri emigranti italiani del secolo scorso in giro per il mondo.
Se vuole la mia risposta schietta, e se è permesso in questa intervista fare una considerazione che non può prescindere da una prospettiva politica, quello della cittadinanza in Italia è un tema centrale che non può essere più rinviato. Abbiamo migliaia di ragazzi, figli di emigranti ormai da anni stabili nel nostro paese, che hanno il diritto di sentirsi cittadini di serie A. Il Venezuela del 1961 era eoni avanti sul tema dello ius soli rispetto ad una Italia ormai da tempo appiattita su posizioni culturali retrograde e moralmente insostenibili.

Le vicende dei migranti, spesso, sono narrate nella prospettiva della “pietas”.
Quali sono stati i presupposti etici della ricerca biografica che ha condotto?

Se si riferisce alla ricerca che ha avuto come storia la mia microstoria familiare, il presupposto “etico” era quello di chiarire a me stesso la dimensione affettiva che albergava dentro di me fin dalla mia infanzia e che aveva e ha determinato ogni mia scelta di vita presente e futura; una dimensione consapevole ma anche irriflessa perché determinata da una parte di me per lungo tempo sopita o tenuta nascosta in un angolo oscuro della mia mente. Freud diceva che l’Io non è ospite in casa sua. Un comportamento etico richiede, secondo me, consapevolezza di sé ma anche la conoscenza dei propri limiti e la predisposizione al dubbio cartesiano, che non sempre si fonda su elementi razionali. Quindi, nel mio caso, sono partito da “Io”, da me come adolescente migrante e figlio di emigranti. Poi, certo, se allarghiamo lo sguardo verso una dimensione sociale e non individuale rispetto al fenomeno della migrazione oggi, non possiamo prescindere da una prospettiva della “pietas”. Credo tuttavia che questa parola non vada ridotta al suo significato più immediato e “buonista” – spesso anche ipocritamente “buonista” – quanto ad una semantica più ampia che parta dalla sua radice latina e che si è arricchita nel corso della Storia. Quindi, non soltanto attenzione devota e religiosa verso qualcosa o qualcuno, ma virtù che ci porta al rispetto e alla “cura” di ciò che è altro da me, sia esso umano, animale o inanimato come può essere l’alveo di un fiume essiccato dal mutamento climatico.

Lei è altresì uno psicologo impegnato nel campo della formazione. Capita che minorenni migranti siano coinvolti in esperienze criminali.
I modelli comportamentali pericolosi seguiti dai minorenni non integrati possono essere reputati quali esiti del loro risentimento e di un “io” ridotto in frantumi?

Premesso che ho studiato psicologia e, dopo una parentesi post-universitaria in cui mi sono occupato di psicoanalisi, mi occupo da anni in modo prevalente di formazione degli adulti, quindi sono poco titolato a parlare di problematiche riguardanti il mondo minorile, vieppiù se di migranti. Nondimeno, qualche idea ce l’ho e posso dirle che, per me, se circoscriviamo il tema al mondo della migrazione, il punto focale da valutare richiede una comprensione della cultura familiare che questi ragazzi e ragazze hanno respirato fin dalla nascita, del livello di “nurturing” che hanno vissuto, del grado di empatia che hanno sperimentato nel rapporto tra loro e le figure parentali. È sempre una questione di identificazione con le figure primarie e di qualità delle relazioni interne ed esterne alla famiglia di appartenenza, senza contare i fattori esogeni come le guerre, la fame e le carestie che non possono che aver aggravato l’esistenza e le personalità di questa gioventù sfortunata. Dovremmo tutti chiederci cosa sarà dei bambini e degli adolescenti che sono approdati nelle nostre terre avendo perso per strada o in mare i propri genitori: reggeranno all’urto del “nuovo mondo” e ai nostri modelli culturali? Il loro “imprinting” sarà sufficiente a sorreggerli nelle sfide che incontreranno nella loro condizione di migranti? A chi saranno affidati, e quelli già affidati hanno dei referenti all’altezza del compito? Si diventa criminali non per una tara genetica ma per un ambiente che ha spezzato quell’“Io” che lei evoca nella sua domanda. A rischiare di andare in frantumi non è tanto o soltanto la loro mente ma il complesso delle nostre credenze morali oggi più che mai colpite dall’indifferenza verso la diversità, che è poi la paura verso l’Altro, ovvero verso ciò che ha in sé la potenza di ricordarci: ma tu, chi sei?

Massimiliano Conte
lasciata Caracas alla maggiore età, intraprende gli studi universitari a Roma per stabilirsi definitivamente in Italia e avviare la sua carriera professionale nel campo della Psicologia del Lavoro, in particolare nell’area
Risorse Umane. Ha lavorato in diverse e importanti aziende del settore bancario-finanziario, anche con ruoli di responsabilità come quello attuale presso una nota società di servizi alla Formazione.
Con Robin Edizioni ha pubblicato “Adiós Caracas” (2022) e “Nessuna voce, è solo il vento (2023, in stampa).

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