“Noi della “Generazione senza figli” siamo come l’Odradek di Kafka, quell’oggetto simile a un uomo, che appare però privo di senso” Qual è il supposto, ipotetico, immaginifico motivo addotto, generalmente, da chi circonda una donna priva di prole?
Generalmente, quando gli “inquisitori” si sono sincerati, perlopiù con indelicate domande, del fatto che la mancanza di figli sia una scelta e non una necessità dovuta a “handicap procreativi”, emerge il giudizio sulla donna, additata come “egoista, interessata all’ esclusiva realizzazione di se stessa e priva di istinto materno”.
Bisognerebbe domandare a chi mette in scena certe allucinazioni se ha ben chiaro quale sia l’istinto più egoistico presente nell’uomo. Scientificamente e filosoficamente, è proprio l’istinto riproduttivo. La natura ha radicato nei viventi un istinto talmente forte da annientare spesso ogni capacità razionale, in ossequio al bisogno dell’uomo di travalicare i limiti temporali e biologici del proprio corpo, consegnando la propria eredità genetica ai posteri. Premesso che non intendo con questo accusare di “egoismo insano” gli aspiranti genitori, né additare l’istinto riproduttivo di cui la natura ci ha intelligentemente dotati, è mia priorità sfatare il luogo comune che dietro la procreazione naturale ci sia un valore altruistico, e dietro la scelta di non procreare, o di procreare utilizzando gli strumenti scientifici oggi disponibili, ci sia un movente egoistico.
La disistima che avvilisce le donne e le rende oggetto di stereotipi e clichè ha ragioni culturali e dove ha condotto?
Ha ovviamente origini culturali, che traggono forza nel patriarcato da sempre vigente, seppur attraverso fasi alterne e differenti. Il risultato di questa forma di schiavitù subdola, che vuole ricondurre la donna ad un ruolo stereotipato di mamma (anche laddove non più moglie) devota alla sola causa riproduttiva, dando valore e riconoscimento sociale alla donna-ma-donna, impone ancora alle nostre contemporanee una inaccettabile violenza psicologica, ed è una delle cause delle violenze di genere. Pensiamo alle reazioni veementi verso quelle donne che, ad un certo momento della loro vita, scelgono di sottrarsi alle forme antropocentriche vigenti in famiglia e nella società e cercano una diversa emancipazione di sé e della propria individualità.
Il tema della “maternità surrogata” è fortemente divisivo.
Reputa che possa essere considerata quale un paradigma decisivo per declinare una nuova grammatica filosofica?
Come spiego nel mio saggio, la maternità e la genitorialità iniziano laddove c’è un atto d’amore. Ciò prescinde dalla modalità con la quale il processo riproduttivo ha origine. Oggi la scienza mette nelle condizioni un malato di rene di poter sopravvivere grazie al rene di un donatore. Un cadavere, in sostanza. Per quale ragione logica dovremmo scandalizzarci laddove ad essere donato (temporaneamente) fosse l’organo che consente la procreazione?
Una riflessione attenta ci pone sui binari della coerenza, che credo sia imprescindibile quando di parla di un approccio filosofico e bioetico.
Quali sono le difficoltà nel programmare un approccio genitoriale nel mondo del precariato?
Il capitalismo individualista ha smembrato il senso di gruppo, e, per questa ragione, il precariato investe non solo la vita lavorativa dei giovani, ma la vita emotiva, affettiva e la capacità di autodeterminarsi nel mondo. Le certezze che aveva la generazione precedente, ormai offuscate, erano proprio quelle che consentivano, nel bene o nel male, una programmazione familiare stabile.
Il suo è un saggio etico-filosofico che ripercorre le tappe del concetto di “maternità” dal matriarcato al periodo fascista, affrontando il problema delle aberrazioni legislative e della legge 40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita. A quali conclusioni è giunta, considerando il terreno della filosofia postantropocentrica, postumana ed epicurea su cui si muove?
L’importanza di una prospettiva postumana si scopre maggiormente in una società che ha perso i riferimenti precedenti e brancola nel vuoto valoriale. Oggi si avverte la necessità di emanciparsi da una mentalità antropocentrica ormai desueta e riscoprire se stessi come elemento della grande macchina cosmica: una immensa catena, nella quale ogni anello ha pari valore ed è in grado di comprendere che la propria sopravvivenza è vincolata alla capacità di costituire rapporti equilibrati con gli altri, umani e non umani.
Carmen Trigiante scrive di sé: “Laureata in Filosofia ed in Marketing, mi sono dedicata alla sceneggiatura, alla regia di webseries su temi sociali e animalisti, alla collaborazione con importanti magazine culturali; infine ho scelto coraggiosamente di praticare l’Arte pittorica e letteraria in maniera libera e itinerante.”
