Sillabario all’incontrario

Autobiografia, diario, saggio, romanzo: in qual misura “Sillabario all’incontrario” si propone di valicare i confini in cui, solitamente, la scrittura narrativa s’incasella e si etichetta?

Scrivere libri che non si sa bene come incasellare ed etichettare è sempre stato uno dei miei difetti. Il mio romanzo d’esordio, Il pantarèi, riuscì indigesto agli editori anche – credo – per questa sua inclassificabilità. Gli editori, specie quelli che ritengono di essere grandi, detestano i libri di incerta classificazione, che sembrano voler sfidare la loro organizzazione della cultura in collane. Basti pensare al destino tragicomico di uno dei rari capolavori della narrativa italiana del Novecento, Se questo è un uomo: rifiutato più volte da Einaudi (la prima edizione, del 1947, è dovuta alla Francesco Da Silva di Franco Antonicelli), fu infine pubblicato, con oltre dieci anni di ritardo (1958), nella collana “Saggi”! Segno evidente che il libro era considerato una semplice testimonianza sui lager nazisti: il fatto che testimoniasse anche del talento di un grande scrittore era un difetto cui, dopo una dozzina d’anni, ci si rassegnò a passar sopra. A me piacciono i romanzi che attraversano i confini prestabiliti, che si tratti di confini merceologici, letterari, morali o addirittura politici. Se si volesse a tutti i costi appiccicare un’etichetta ai miei romanzi, consiglierei di scriverci sopra: “Anguille”. Sillabario all’incontrario non è che l’ultimo nato, in ordine di pubblicazione, di questa progenie anguilliforme. Con l’aggravante che, non essendo stato progettato come un romanzo ma come una medicina (l’ho scritto io stesso nella “Prefazione”), la sua morfologia anguillesca non va attribuita, almeno in questo caso, al partito preso dello scrittore, bensì alla natura dell’uomo, o del pesce. L’unico rischio che corre il mio Sillabario è che, trattandosi di un’opera dichiaratamente autobiografica, qualcuno voglia appiccicargli sopra l’incongrua etichetta “autofiction”.

Dalla Z di Zoo alla A di Aldilà: un alfabeto capovolto alla scoperta di ricordi, libri ed animali.

L’esperienza personale ed intima come può assumere i caratteri dell’universalità lirica?

L’alfabeto, nel mio Sillabario, va a ritroso come va a ritroso ogni indagine e come, supremamente, va a ritroso la memoria che in questo caso costituisce lo strumento di lavoro privilegiato. Ora, la memoria (lo sappiamo tutti) ha il potere di trasformare e mitizzare il passato, rendendo poetiche anche le vite più aride. La mia non è stata arida per niente: difficile, forse, un po’ più della media (la media di questa parte fortunata del mondo, s’intende), ma sempre ricca di forti emozioni. Non c’è quindi di che sorprendersi se tutto il narrato, dai gatti all’oltretomba passando per amori e dolori, padri e figli, compagne e compagni, Sardegna e Liguria, Milano e Parigi, si tinge sulla pagina di quella patina lirica che può sedurre il lettore, convincendolo di essere entrato in un mondo che, pur non appartenendogli, lo riguarda. Questo, del resto, è il bello della letteratura, quando il gioco riesce: mutare, come alchimisti, il piccolo in grande e il particolare in universale. Siamo abituati a pensare che questo compito sia svolto meglio, in generale, dalla poesia che dalla narrativa. Ma non è affatto necessario che sia così. Io ho incominciato a scrivere versi molto tardi, dopo i quarantacinque anni, e ne ho prodotti comunque pochi (non sono neanche sicuro di aver raggiunto il migliaio): perciò la maggior parte della poesia che avevo dentro di me l’ho riversata nei romanzi. Alla poesia ho affidato il compito di risparmiare parole e spazio ben più che quello di ampliare il mio orizzonte o il numero dei miei lettori postumi.

Dal mondo esterno verso quello interiore: la passione per la scrittura ed il complesso rapporto con la propria memoria, pulsante di piaceri impareggiabili, sofferenze mai addormentate e colpe incessantemente imperdonabili.

Dove finisce il pudore, allorché si è scrittore?

Di certo, scrivendo il Sillabario, il problema del pudore non me lo sono posto affatto: trattandosi di un’indagine su me stesso, ogni reticenza si sarebbe configurata come un vero e proprio atto di autosabotaggio. Questo non significa che sia stato facile stanare tutti i ricordi più delicati dai loro nascondigli, che in psicologia si chiamano rimozioni. Ciò che posso dire di interessante in proposito è quanto segue: la maggiore resistenza di me a me stesso non l’ho incontrata affrontando il tema del mio destino di scrittore inedito, né riportando alla luce le mie spericolate avventure erotiche, con tutta la loro coorte di problemi etici, bensì affondando il bisturi nel groviglio ancora sanguinante della mia, sia pure occasionale, cattiveria di adolescente. Non è certo un caso che, nello sviluppo caotico, libero e spontaneo della ricerca, questo ricordo sia arrivato per ultimo.

Legami di sangue e la paternità non biologica, devastazione dell’ambiente ed invadenza del denaro, bisessualità e rifiuto dei ruoli convenzionali. È un passato recentissimo, eppure davvero distante, considerate le evoluzioni, i mutamenti, i cambiamenti dell’ultimo ventennio.

Quali sono le ragioni sottese a tale scelta del «tempo del racconto»?

Sono da sempre profondamente convinto che il nemico più insidioso della buona letteratura sia quell’animale assillante e rumoroso, ma dalla vita effimera, che chiamiamo “attualità”. Direi, con una semplice immagine, che il materiale capace di mettere le ali e far volare alto alto il bravo giornalista è lo stesso materiale che schiaccia al suolo e fa strisciare terra terra anche il migliore scrittore. E il fatto che queste due arti, oggi, tendano a confondersi non è un bene per nessuna delle due. Cosa ben diversa è constatare come i buoni romanzi, nel parlare con intensità e sapienza del proprio tempo, siano capaci di anticipare i tempi a venire e di essere percepiti come “attuali” quando i loro autori sono magari sepolti da alcuni secoli. Se il mio Sillabario, che ho scritto oltre venticinque anni fa, è capace di far questo, ne sono soddisfatto e orgoglioso più di quanto sarei stato di ogni pubblico riconoscimento: vorrebbe dire che questo libro, progettato come una medicina, si è trasformato strada facendo in un romanzo davvero buono. Certo il mio rifiuto dei ruoli convenzionali deriva in gran parte dalla mia natura, la natura – se così la posso definire – di un ribelle timido e appartato, mai appariscente nei suoi gesti di rottura, e quindi ancor più destinato all’emarginazione, o piuttosto, direi, all’autoesclusione. Ma devo onestamente ammettere che una delle esperienze che ho vissuto e che fanno del Sillabario, in qualche modo, un libro in anticipo sui tempi, cioè l’esperienza della paternità non biologica, la devo alla fortuna e non al mio spirito ribelle: fu un caso, capitato alla mia compagna e a me quando eravamo fra i trentacinque e i quarant’anni, un caso che cambiò la nostra vita (e la nostra percezione della vita) in modo irreversibile. Quanto al tema della bisessualità, legato invece in modo evidente alla mia natura di ribelle sui generis, credo che mi caratterizzi fortemente sul piano letterario: mentre l’omosessualità, pressoché assente dal romanzo moderno fino a pochi decenni or sono, si è assicurata negli ultimi anni una presenza cospicua e crescente, la bisessualità continua ad essere in letteratura un animale raro, come fosse – a somiglianza appunto dell’omosessualità nell’Ottocento – una strana malattia da considerare con sospetto. La bisessualità è invece, a mio giudizio, il simbolo più semplice e parlante della libertà sessuale. E, se esiste un tema unificante nei miei romanzi, tanto diversi l’uno dall’altro per struttura, genere, linguaggio, ambientazione, questo è proprio il tema della libertà sessuale: una conquista da realizzare dentro sé stessi e, quindi, meno chimerica di quanto si creda.

Oggi, si notano forme narrative «ibride».

Ad oltre trent’anni dal suo esordio letterario, quali tendenze di sviluppo ravvede rispetto al “romanzo”, un genere che continua a sfuggire ad ogni codice?

Ciò che fa del romanzo un genere letterario così longevo da sfiorare la perennità è proprio la sua capacità di fare propria ogni cosa. Non tanto di cambiare e di evolvere, quanto piuttosto di divorare ogni nutrimento assimilandolo al proprio organismo e facendolo vivere come una nuova cellula o un nuovo tessuto. Insomma, la sua forza discende dal fatto che il romanzo, fin dalle sue origini, si è collocato nello strato più basso della scala dei registri e degli stili, e quindi, grazie alla legge di gravità che fa cadere sempre tutto verso il basso, e mai verso l’alto,

è capace di accogliere, assorbire, trasformare anche ciò che sta sopra, in una commistione incessante di tragedia e commedia, di poesia e turpiloquio, di nobiltà e ignobiltà, di presente, passato e futuro. Da parte mia, essendo un autore che rifugge dalle classificazioni di genere, non posso che accogliere con favore l’introduzione nel romanzo di oggetti che prima, per forza di cose, ne erano assenti, come la prevalenza, nel nostro vissuto, della realtà virtuale su quella corporea o certi temi antichissimi ma oggi profondamente mutati nella loro natura come le migrazioni dei popoli. A me le ibridazioni piacciono, le apprezzo come lettore, le coltivo io stesso. Purché “ibrido” non diventi a sua volta una paradossale definizione di genere letterario. “Che tipo di romanzo è? Un noir? Un distopico? Una autofiction?” “No, no! è un ibrido: proprio un ibrido puro!”

Ezio Sinigaglia (Milano 1948) ha alle spalle una lunga esperienza di collaboratore editoriale e copywriter. La sua opera prima, Il pantarèi, uscì nel 1985 per un piccolo editore milanese (SPS, poi Sapiens). Dopo oltre trent’anni di silenzio, nel 2016 è tornato in libreria con un romanzo breve, Eclissi (Roma, Nutrimenti), sorprendente vincitore, a quattro anni dalla sua pubblicazione, del contest Modus Legendi 2020. Nel 2019 ha riproposto Il pantarèi nella collana “Fondanti” dell’editore TerraRossa di Alberobello, che ha poi pubblicato e sta tuttora pubblicando via via i suoi inediti: sono usciti L’imitazion del vero (2020), Fifty-fifty (in due volumi: 2021 e 2022), e Sillabario all’incontrario (2023). Recentemente (luglio 2023) l’editore Wojtek ha proposto una sua raccolta di racconti, dal titolo L’amore al fiume (e altri amori corti). Ha tradotto e curato edizioni di classici francesi (Perrault, Marcel Proust, Julien Green, Boileau-Narcejac) e pubblicato contributi su prestigiose riviste a stampa e online.

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