Dante e l’iniziazione femminile. Beatrice, Maria e altre «dee»

Beatrice è percepita come angelicata, desessuata, depotenziata; è immaginata come una creatura, diafana, esangue, pura liliale. Eppure, lei, Professore, la interpreta come una delle più flagranti e femminili della nostra letteratura. Cosa, nei più, alimenta l’errore interpretativo?
Sì, in questo libro, come Nella attualità dell’esperienza di Dante, il mio libro Edito Mimesis, lavoro su una reinterpretazione di Beatrice che la restituisca al suo femminile, un femminile innamorato, potente, politico. Per esporre ciò, prestando grande attenzione ai testi, basterebbe citare Vita Nuova, capitolo 2, e Purgatorio XXX. Per quale ragione abbiamo diminuito, miniaturizzato in questo modo Beatrice? Le ragioni sono tante. Personalmente credo che dipenda dal nostro sguardo frantumato e fratturato, non più in grado di cogliere l’idea di un amore integrale che sappia tenere insieme corpo, anima e spirito; oppure, come Dante, nel capitolo 2 di Vita Nuova, esprime in modo geniale, un amore capace di toccare i tre centri dell’essere umano, nonché quello del cuore, quello delle viscere e quello intellettuale. Dante sembra quasi parlare di tre chakra, eppure sono centri di cui anche l’Occidente è a conoscenza, centri sottili che identificano e prospettano un amore che tenga unite tutte le parti dell’uomo. Di noi, interpreti così frantumati, a leggere Dante è solo una parte: non riusciamo più a vedere l’integralità della sua prospettiva.
Eros e charitas: come si coniugano questi due elementi nel percorso d’iniziazione spirituale dantesco che comprende altresì l’amore verso Beatrice?
La seconda domanda su eros e charitas rappresenta quasi la continuazione di questo concetto: in Dante è presente proprio la tensione, nuovamente evidente in Vita Nuova, di coniugare due dimensioni dell’amore, Eros e Charitas, e anche Amore, Eros, Charitas, Agape e Ragione. Nel capitolo 2, tale amore dirompente non avviene se non in presenza del fedele consiglio della ragione: Dante è, dunque, trinitario, non è dualista, non c’è un out-out tra un amore come Eros e uno come Agape. Non c’è o un amore materiale o un amore spiritualizzato: la tensione che poi si esplica in modo straordinario nella Commedia è proprio quella di un amore completo che sappia armonizzare le sue dimensioni affettive, sensitive e sensibili con quelle spirituali e gratuite. Si tratta di una tensione cruciale del poema e, del resto, basterebbe citare alcuni versi di Purgatorio XXX:
Donna m’apparve, […]
vestita di color di fiamma viva […]
[…] Men che dramma
di sangue m’è rimaso, che non tremi:
conosco i segni dell’antica fiamma.
Così, quello che in Paolo e Francesca non è integrato – essendo il loro non un amore eccessivo ma incompleto, manchevole della dimensione, se così può essere definita, verticale – è, invece, presente nell’amore per Beatrice, caratterizzato da una dimensione orizzontale ed una verticale e, verosimilmente, il centro della croce originata da queste due linee è il segreto, il mysterium coniunctionis dell’amore cantato da Dante in Beatrice, che diviene emblema, dunque, di un amore triadico e pieno.
Lei ha affermato che nella Commedia “Uomo, donna, cosmo e mistero divino cooperano”. Ebbene, quale scopo perseguono?
Sì, è parte della visione cosmoteandrica, o cosmoteandricosofianica, di Dante, nonché trinitaria, non frantumata, non spezzata o dualizzata tra cielo e terra. Uomo, donna, cosmo e mistero divino cooperano perché l’uno ha bisogno dell’altro: Dio, mondo e uomo (inteso non come maschio ma essere umano) sono tre dimensioni della realtà. In particolare la dimensione femminile, di un femminile innamorato, politico, in quanto trattasi non solo di un femminile sentimentale ma di un femminile che ha la sua legge nell’amore radicale; l’amore, invece, giudica un mondo fondato sul potere, sulla lupa, sul fiorino, sul primo capitalismo fiorentino, fortemente attaccato fin dal primo canto della Commedia. Dunque questo è lo scopo dell’esistenza: tale dimensione di interrelazionalità del divino, dell’umano e del cosmico è il segreto della vita da noi totalmente perduto e smembrato, sebbene sia di questo che abbiamo sete e sia questo l’obiettivo, l’aspirazione di molti ricercatori e ricercatrici oneste.
Il 2021 ha celebrato il settecentesimo anniversario della morte di Dante in maniera notevolmente articolata e corale, escludendo barriere tra discipline artistiche e non. Cosa ha rappresentato ed ancora oggi rappresenta Dante?
Dante rappresenta per me innanzitutto il mio maestro, il mio autore. Inoltre, per noi può significare una concezione del mondo dalla quale ripartire: non ritornare a Dante, poiché sarebbe anacronistico, insipiente, bensì ripartire da lui e dalla sua visione in grado di unire la complessità della realtà, le sue dimensioni, di tenere insieme corpo, anima e spirito e che ci propone anche una spiritualità integrale. La spiritualità di Dante è tanto corporea quanto psichica, animica e, appunto, spirituale. Dante è un mistico e ci propone una mistica che non è solo quella del terzo occhio: cioè una mistica “totale”, dunque, non disincarnata, e che, in quanto tale, diviene esperienza di vita profonda, oltre che critico-politica, cioè di forte denuncia. Insomma: Dante ci è contemporaneo, ci chiama dal futuro: egli rappresenta per noi un compagno e amico, non solo profeta.
Dante adopera un “linguaggio” di verità: bello, brutto, maestà e squallore, operosità e rassegnazione, meraviglia e mistero coabitano, s’annodano e si arruffano. La modernità del Sommo Poeta sta nel concedere al lettore di scoprire la propria costante fragilità?
Certo, il linguaggio di verità di cui lei parla è centrale. La tensione è proprio quella di non frantumare la realtà e, inoltre, di saper discendere agli inferi. Questa è la ragione per cui il brutto, lo squallore vengono indagati come discesa, da un lato, negli abissi inconsci e, dall’altro, in quelli perversi della storia, la quale ha compiuto scelte di dominio e non di amore: dunque tali scelte degenerate vanno viste, giudicate e rettificate. Personalmente non so se la modernità del poeta stia nel fare scoprire al lettore la propria costante fragilità, piuttosto ci parla della nostra costitutiva dignità. In If I si dice: Miserere di me, ossia si cita il salmo miserere mei domine quia pauper sum et unicus. “Abbi pietà di me, Signore, perché sono povero e unico”,, quindi sì, sono fragile, ma unico e unica è la mia dignità. Il viaggio della Commedia è un cammino de hominis dignitate, come direbbe Pico della Mirandola, la dignità che diventa anello di congiunzione tra il cielo e la terra: questo è il compito dell’uomo, il quale, dunque, in questa visione cosmoteandrica, rappresenta proprio la copula, l’unione tra l’alto e il basso.

Si può affermare che l’Italia sia venuta alla luce anche grazie ad una sorta di “Dantemania” che ha appassionato l’intelletto e l’animo di innumerevoli giovani tra Settecento ed Ottocento. Dante può essere considerato il nostro autentico Padre della Patria in senso politico?
Credo di sì. Innanzitutto lo è, indubbiamente, dal punto di vista linguistico: più del 90% del nostro italiano, come ci ha ricordato Tullio De Mauro, deriva da Dante, il quale, pertanto, è realmente il padre della nostra lingua e la Commedia la madre della nostra letteratura e del nostro Paese. D’altra parte come l’Eneide, canta Dante, è mamma, nutrice, così lo è sicuramente la Commedia. Inoltre, egli rappresenta un’italianità trascendentale forse non ancora nata, un’Italia come potrebbe realmente essere, un italiano come potrebbe realmente essere: un italiano con le sue potenzialità, le sue genialità senza, tuttavia, i consueti vizi che gli vengono rimproverati, spesso passivi, abulici, indifferenti. Qui, invece, come direbbe don Tonino Bello, Dante è un “contemplattivo”, capace di contemplazione, di attività e di azione. Insomma, un italiano che metta al centro sapienza, amore e virtute: queste sono le ragioni per cui Dante è padre dell’Italia che c’è, ma anche di quella che ancora non c’è.

Morale, religione, politica, amore, odio, passioni, vizi, virtù: come far coesistere il messaggio e la visione dantesche con l’umanità divisa di questo nostro tempo?
Questa è la sfida. Dante stesso ci fa da specchio e ci permette di vedere in che modo abbiamo costruito l’immagine dell’uomo, un’antropologia che è, di fatto, infernale: l’antropologia che domina oggi è individualistica, riduzionistica, “narcinista”, un’antropologia del mors tua, vita mea, una antropologia alla Conte Ugolino, cannibalica, distruttrice della natura, delle relazioni, degli equilibri cosmoteandrici. Pertanto Dante ci chiama ad una metanoia radicale, ad una totale trasformazione: è questo ciò a cui siamo chiamati adesso, altrimenti la nostra specie non avrà futuro. Ci troviamo in un momento di guado della specie umana, ragion per cui o scegliamo la pace o scegliamo la guerra, o l’amore o il potere, o il capitale o la vita. In questi ultimi anni, invece, c’è un regresso guerrafondaio, folle e criminale, pertanto il richiamo di Dante è essenziale: non è l’unico a interpellarci in questi termini, ma di certo lo fa con la generosità e la grandiosità del suo intelletto e del suo cuore. Sta a noi ora scegliere se desideriamo l’integrazione o la disintegrazione.

Professore, a quale terzina è più affezionato e perché mai?
Non c’è una terzina che preferisco, tuttavia sto al gioco e scelgo quella di Paradiso IX, 79-81, della quale mi soffermo specialmente sul finale:

Già non attendere’ io tua dimanda,
s’io m’intuassi, come tu t’inmi

….« s’io m’intuassi, come tu t’inmi»… Trovo questo ultimo verso assolutamente geniale. Dante, rivolgendosi a Folchetto di Marsiglia, afferma: “io non attenderei certo che tu parlassi, non attenderei la tua domanda, se io potessi penetrare in te, intuarmi, come tu sei in grado di fare in me, di entrare in me, di inmiarti”. Si tratta, a mio parere, della straordinaria antropologia del Paradiso, un’antropologia di empatia integrale in cui ci si può intuare e inmiare: così è anche l’amore, ci si intua e ci si inmia senza perdere il tu e senza perdere il me, in una relazione triadica nella quale c’è l’io, il tu ed il mistero della loro relazione. Ritengo che questa terzina e questo verso siano tra le cose più urgenti e più profonde di cui noi abbiamo bisogno: o, nuovamente, Ugolino, o l’intuarsi e l’inmiarsi, con il mistero divino, con il cosmo e con gli altri fratelli e le altre sorelle.

Gianni Vacchelli, scrittore e docente. Tra i suoi ultimi libri: Dagli abissi oscuri alla mirabile visione. Letture bibliche al crocevia: simbolo poesia e vita (Marietti 2008), con la prefazione di Raimon Panikkar; Per un’alleanza delle religioni. La Bibbia tra Panikkar e la radice ebraica (Servitium 2010); Il viaggio (EMI 2010); Per un’ermeneutica simbolica. Tra filosofia, religione e poesia (Ed. Simple 2012). Dopo Arcobaleni (Marietti 2012), Eutopia.

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